Lacrimae Rerum


 

 

LA SCIENZA APPLICATA E L'ANALISI DI PASOLINI.

 

 Recentemente mi è capitato di assistere alle lamentazioni di alcuni colleghi che si dolevano dello scarsissimo numero di iscritti come matricole ai corsi di laurea in materie scientifiche, in particolare la fisica e dintorni. Essi aggiungevano, con evidente dispetto, che al contrario i corsi di laurea in materie umanistiche come Psicologia, Storia dell'Arte, oppure in materie economiche e politiche come Economia e Commercio e Scienze Politiche, traboccavano di iscritti.

Il lettore deve sapere che nella città, che non nomino (e che non rivelerò neppure sotto le più atroci torture), la sede centrale dell'Università è situata in uno splendido palazzo del '600, già prestigiosa sede dei Gesuiti. Questo vetusto palazzo magistralmente conservato, credo  sia stato tolto al patrimonio della Chiesa prima negli anni napoleonici, poi definitivamente a questa sottratto con l'avvento del Regno d'Italia, Essendo il palazzo molto grande può anche generosamente ospitare, oltre agli uffici dell’Ateneo, un’intera Facoltà: Giurisprudenza.

Da qualche parte avevo letto che in una società attuale il numero degli occupati a svolgere professioni umanistiche, come psicologo, giornalista, avvocato, e professioni economiche, come gli impiegati di banca, sommato all'attuale sparuto numero di religiosi, equivale in percentuale al numero totale di preti e religiosi presenti nella società antecedente la rivoluzione francese.

In Italia la rivoluzione francese non è mai arrivata. Abbiamo una società conservatrice, che rifiuta la rivoluzione permanente imposta dalla Scienza Applicata. Quindi la nostra società ha bisogno di una forte cultura umanistica anche per affrontare i problemi quotidiani. Per un naturale accostamento ho allora paragonato gli attuali studenti umanisti, economisti e consimili, agli aspiranti preti e consimili di tre secoli fa. In altre parole i “nuovi preti” di oggi  tornano ad occupare il palazzo avito, mettendo in un angolo chi ha preteso di fare scienza senza curarsi di collocare i prodotti della sua scienza, casomai ce ne fossero. Oggi in Italia il mito della Scienza Applicata è già tramontato, dopo aver visto un'alba stentata negli anni trenta e nel primo decennio del dopoguerra. La gente cerca una cultura che garantisca stabilità sociale agendo dal lato emotivo dell'uomo, visto che le promesse radiose della Scienza si sono ben poco concretizzate, dissolvendo le speranze insieme al loro effetto sociale.  Allora una società priva del messaggio della Scienza ha bisogno di un terziario “ideologico”, equivalente a quella vasta area che, sino a due secoli fa, era coperta dal clero e dai vari ordini religiosi. Su questi problemi si può indagare il pensiero politico italiano e riflettere a lungo, ma è molto difficile arrivare a conclusioni condivisibili da una maggioranza di cittadini. Infatti è impossibile mettere in discussione come assolutamente prioritario un argomento che l’italiano medio o ignora del tutto, o ritiene banale oppure ritiene essere una ovvietà da mettere facilmente a soluzione non appena la sua parte politica raggiungerà il potere.

Ma le conseguenze dell’abbandono della Scienza Applicata non sono solo nella conseguente necessità fisiologica di avere un gran numero di nuovi preti, definiti impropriamente come addetti al terziario. La conseguenza più evidente e clamorosa è nella progressiva scomparsa della grande industria in Italia.

I sindacati hanno svolto un’accanita politica operaista dimenticando che un operaio può lavorare a condizione che il prodotto del suo lavoro sia vendibile. Cioè ha da essere un prodotto aggiornato secondo le novità emerse al momento e possibilmente essere dotato di qualche innovazione in più rispetto ai concorrenti. Ma per incorporare innovazione in un prodotto debbono lavorare accanto alla fabbrica centri di ricerca dove vengono impiegati quelli che il sindacato genericamente definisce: colletti bianchi.  L’ostilità poco mascherata dei sindacati verso gli ingegneri e i tecnici ha favorito la perniciosa tendenza a chiudere i centri di ricerca e lavorare su licenze comperate da ditte estere. Questa scelta suicida, condivisa purtroppo dalla dirigenza della grande industria italiana, ha portato prima all’impoverimento della classe operaia, poi allo smantellamento di fatto del nostro sistema industriale. Le cause di questa evoluzione fallimentare hanno origine dalla crescente rapidità con cui l’innovazione ha cominciato a svilupparsi sin dagli anni settanta. Basarsi su una produzione industriale fondata sulle licenze ha significato mettere sul mercato prodotti vendibili con pochissimo valore aggiunto perché invecchiati rapidamente a causa della fretta con cui procede l’innovazione nel mondo.  Infine si verifica la scomoda condizione di concorrenza non con i paesi avanzati, ma con quelli emergenti, dove il costo del lavoro è molto inferiore al nostro a causa non di peggiori condizioni di vita dei lavoratori ma grazie ad artifici nella definizione dei cambi monetari.

Le licenze verranno concesse solo dopo che il prodotto è diventato “maturo”, quindi commercializzabile con poco guadagno. Inoltre non si potrà fare una politica commerciale aggressiva e si finirà per fondare i margini di guadagno residui solo sulla compressione dei costi, e principalmente comprimendo il costo del lavoro, la cui riduzione diventa il cardine dell’economia, la questione di vita o di morte per l’industria sopravvissuta. Alla fine la politica ferocemente operaista del sindacato, congiunta all’incapacità della dirigenza della grande industria, si ritorce dapprima proprio contro la classe operaia, costretta a retribuzioni da terzo mondo. Ma poi anche le altre classi sociali vedono ridursi il loro tenore di vita.  Solo la classe di coloro che ricevono rendite di capitale vedono elevarsi la loro ricchezza. Infatti la remunerazione del capitale industriale è fissata da parametri stabiliti a livello mondiale in forza dell’estrema facilità con cui i capitali stessi possono spostarsi là dove esiste un guadagno più alto.

E volendo invece tornare alle nostre polemiche sarà bene dire che la sinistra italiana ha dimenticato l'iniziale definizione che Marx volle dare al movimento da lui creato: socialismo scientifico, contrapponendosi per subentrare al socialismo di Saint Simon, definito da Marx stesso: socialismo utopico.  Poi, nella pratica spicciola del fare politica tutti i giorni, la Scienza, che sarebbe dovuta restare incorporata nel pensiero della sinistra, è stata dimenticata e di essa si trovano tracce sempre più esili. Il problema centrale della nostra politica è diventato quello di conservare l'equilibrio raggiunto e preservarlo dalle variazioni imposte dagli accidenti esterni, determinati, se non altro, dalle naturali oscillazioni delle umane opinioni. Il vertice di questo potere impose il primato assoluto della politica, definita come umanistica ed umana, ma in realtà calata nel quotidiano come una manifestazione tribale, preilluminista, sostegno di una gerarchia istituzionale che non vuole certo rompersi il capo con i problemi della strategia industriale collegata alla scomoda dinamica del progresso tecnologico.  Quindi questo progresso è rimasto estraneo e sconosciuto ai politici italiani.  Ma è altrettanto sconosciuto ed estraneo ai nostri industriali ed ai nostri sindacalisti.

Tuttavia tra i commentatori politici troviamo almeno una eccezione: Pasolini, che ebbe grande sensibilità anche per problemi lontani dal suo umanesimo. Egli scrisse queste righe (dalla rivista <Dramma> del  marzo '74):

"C'è stato un momento, pochi anni fa, in cui pareva ogni giorno che la rivoluzione sarebbe scoppiata l'indomani. Insieme ai giovani - dal 1968 in poi - a credere nella rivoluzione imminente ....c'erano anche degli intellettuali non più giovani ...In essi questa certezza di  una  Rivoluzione dell'indomani non trova la giustificazione che  trova  nei giovani: essi si sono resi colpevoli di aver mancato al primo dovere di un intellettuale: quello di esercitare prima di tutto ...un esame critico dei fatti. E se, per la verità, si sono fatte in quei giorni orge di diagnosi critiche, ciò che mancava era la reale volontà della critica. ...Senza senso comune e concretezza la razionalità è fanatismo. E infatti, su quelle mappe intorno a cui si affollavano gli strateghi della guerriglia di oggi e della rivoluzione del giorno dopo, l'idea del dovere dell'intervento politico degli intellettuali non veniva fondata sulla necessità e sulla ragione, ma sul ricatto e sul partito preso. Oggi è chiaro che tutto ciò era prodotto di disperazione  e di inconscio sentimento di impotenza.  Nel momento in cui si delineava in Europa una nuova forma di civiltà e un lungo futuro sviluppo programmato dal Capitale - che  realizzava così una propria rivoluzione interna: la rivoluzione della Scienza Applicata, pari per importanza alla Prima Seminagione, su cui si è fondata la millenaria civiltà contadina - si è sentito che ogni speranza di Rivoluzione operaia stava andando perduta. ...Non solo, ma ormai era chiara non tanto l'impossibilità di una dialettica, quanto addirittura l'impossibilità di una commensurabilità, tra capitalismo tecnologico e marxismo umanistico. Da ciò l'urlo che è echeggiato in tutta l'Europa, e in cui predominava, su ogni altra, la parola Marxismo. Non si voleva - giustamente - accettare l'inaccettabile. I giovani hanno vissuto disperatamente i giorni di questo lungo urlo, che era una specie di esorcismo e di addio alle speranze marxiste: gli intellettuali maturi che erano con loro hanno invece commesso, ripeto, un errore politico."

Le parole sono alte, il contenuto è profetico, ma gli errori storici sono tanti e gravi. La Prima Seminagione, a cui Pasolini accenna è forse quella che avvenne a partire dal  6000 avanti Cristo. La civiltà contadina, che Pasolini aveva sempre in mente, era nata invece a cavallo del primo millennio dopo Cristo. La rivoluzione delle tecnologie agrarie venne compiuta dagli ordini religiosi, attorno al mille. Nei monasteri venne compiuta la sperimentazione che avrebbe trasformato radicalmente le tecniche di coltivazione e di trattamento dei prodotti agricoli. La Chiesa affermò il suo predominio avvalendosi non solo di prediche, ma di una grande rivoluzione tecnologica nell'agricoltura e nella medicina; in entrambi i campi mantenne di fatto il monopolio sino alla vigilia della rivoluzione francese. Invece la rivoluzione della Scienza Applicata è sfuggita di mano alla sinistra per essere monopolizzata dal Capitale.  L'errore fu di non aver inteso che il marxismo si fondava sull'avvento del regno delle macchine almeno quanto il capitalismo. Il marxismo, che appare dagli scritti di Marx, non si abbandona ad illusioni ma mira ad attuare per primo ed in esclusiva la grande Rivoluzione della Scienza Applicata. Ma la sinistra non ha capito. I giovani poi non seppero fare altro che urlare ed esercitarsi nella guerriglia, circondata oggi dal sospetto di essere stata per un certo periodo protetta allo scopo di ingenerare nell'opinione pubblica un forte rifiuto. I giovani non seppero certo seguire la strada dell'astinenza tecnologica per limitare il potere del grande Capitale Tecnologico internazionale. Strada che invece Gandhi fece seguire con successo ai popoli dell'India, che rifiutarono i prodotti, allora ad alta tecnologia, dell'industria inglese. I giovani hanno dimenticato di leggere tutto Marx ed in particolare hanno trascurato il capitolo delle macchine e non si sono accorti che il progetto marxiano, pur contemplando il ruolo fondamentale delle macchine, aveva a sua volta dimenticato i costruttori della scienza e della tecnologia, i costruttori delle macchine. Costoro furono monopolizzati dal capitale, che incorporò le loro scoperte, pagando ben miseramente il plusvalore del loro lavoro. Grazie a queste dimenticanze ed omissioni della sinistra, i lavoratori della Scienza e della Tecnologia non furono mai protetti dalle potentissime organizzazioni sindacali, essi furono abbandonati allo sfruttamento del Capitale, che in tal modo si rafforzò. Ed ora ai nostri ragazzi non resta altro che ritornare ai mestieri che alcuni secoli fa svolgevano vari ordini religiosi. Siamo usciti dalla storia presente e siamo tornati nel limbo di una realtà che si rifugia nell'ignorare il mutare della storia del Mondo.

 

Prof. Raffaele Giovanelli

IL NUOVO SAGGIATORE, 15, n. 5-6 (1999)