BREVI NOTE SU:
POLITICA, TANGENTI E TECNOLOGIA IN ITALIA
L'ECLISSE DELLA TECNOLOGIA E LA NASCITA DELLA CIVILTA' DELLE TANGENTI IN ITALIA DAGLI ANNI '40 AGLI ANNI '90
A cura del: Prof. Raffaele Giovanelli
(Milano 1997)
Prefazione.
Le tesi presentate in questo lavoro,
compendio di una trattazione più vasta, sono quanto meno inusuali.
Per amore di chiarezza esse vengono qui riassunte.
Il Risorgimento, secondo il parere di molti fu tradito, per altri fu
incompiuto. Qui invece si afferma che il Risorgimento fu un'invenzione
derivata dalla cultura europea. In realtà si trattò dell'occupazione
militare dell'Italia da parte dell'esercito piemontese. Gli italiani
con qualche dubbio restarono nell'illusione di aver creato uno Stato
a pari diritti con gli altri Stati europei. La prima Guerra mondiale
distrusse l'illusione ed il fascismo venne accolto come il vero creatore
dell'Italia. Il fascismo ci liberò dalla dominazione piemontese
ma in tal modo, involonta-riamente, mise in moto la disgregazione dello
Stato nazionale. A nulla valsero i suoi tentativi di recuperare la patria.
Annegò nella retorica. L'inizio ufficiale del disfacimento risale
al grido di "tutti a casa", quando il governo Badoglio scappò
insieme ai membri di casa Savoia, lasciando l'esercito senza capi e
senza ordini.
Nel dopoguerra gli italiani si trovarono perfettamente a loro agio nelle
vesti di sudditi ai confini del grande impero americano. Ricostruirono
in pochi anni case, ferrovie, fabbriche e cultura sino a suscitare
l'invidia e l'astio dei vincitori. Ma si proibirono l'ingresso nelle
nuove tecnologie sia per paura di essere indipendenti, sia per un'antica
ruggine verso la Tecnica e verso la Scienza, ruggine che il grande Benedetto
Croce aveva esaltato a dignità di credo filosofico. Questo a
lunga scadenza provocò la crisi delle nostre grandi industrie,
che non poterono e non seppero gestire la ricerca e l'innovazione. Il
nostro sistema industriale, ereditato dall'era fascista ancora in buona
salute, venne provvisoriamente salvato dall'autodistruzione con l'invenzione
di una complessa struttura politica fondata sulle tangenti. La capacità
persuasiva delle tangenti sopperì, per alcuni decenni, alle
certezze che sarebbero dovute derivare dal progresso della scienza e
della tecnica.
Quindi la "civiltà delle tangenti" si sviluppa per
salvare un sistema che non vuole e non può fondarsi sulla "civiltà della tecnica". La realtà produttiva viene sostenuta dalla
controcul-tura, l'arte di vivere ed anche prosperare in condizioni di
totale avversità, condizioni costruite principalmente dalla cultura
dominante, egemonizzata dalla sinistra. La cultura dominante spaccò
il pensiero degli italiani e li costrinse ad infinite riserve mentali
sino alla formazione di un pensiero nascosto, quello che qui si definisce
come controcultura. Nella controcultura entra l'area del sommerso, dell'evasione
fiscale delle piccole imprese ai margini e fuori della legalità.
Ma essa può operare solo se esiste uno Stato, tollerante, inerte,
inefficace e tuttavia in grado di garantire un quadro di riferimento,
una società che si regga. La ventata di "mani pulite"
ha cancellato la tolleranza non per moralizzare il costume sociale,
ma per colpire una parte politica e far trionfare l'altra, che aveva
ed ha altrettante colpe. Il risultato non è stato solo il trionfo
della sinistra ma soprattutto l'aver danneggiato il nostro sistema produttivo,
l'aver compromesso la sopravvivenza della controcultura, colpendo l'economia
sommersa senza portare alcun vantaggio a quella legale. Stupisce lo
stupore di alcuni magistrati, che hanno dichiarato di aver previsto
un rifiorire dell'industria e dei commerci e di dover constata-re l'esatto
contrario. In queste condizioni l'applicazione del trattato di Maastrict
può solo portarci alla rovina, dalla quale la Germania si appresta
a ricavare lucrosi frutti. Da due secoli indotti ad osannare le virtù
dei popoli del nord-Europa, non ci siamo accorti che nel frattempo avevamo
costruito una nuova civiltà che oggi ci apprestiamo a distruggere
spontaneamente, per avere l'onore di sperare di poter sedere alla pari
nel consesso dei popoli europei, nel frattempo non poco sbiaditi in
ambito planetario.
Le conclusioni sono amarissime: L'Europa non ha energie per gareggiare
con il resto del mondo e neppure il coraggio di richiudersi in se stessa.
Divorata da rivalità profonde, oggi patetiche, l'Europa si avvia
a diventare una regione colonizzata dal nuovo capitale tecnologico
internazionale. Perduta ogni possibilità di avere peso nelle
vicende mondiali, progressivamente si trasforma in una grande Disneyland.
In questo quadro l'Italia è un caso ancor più tragico,
essendo il nostro paese avviato letteralmente all'estinzione nell'incoscienza.
Essa vive una sorta di eutanasia differita.
L'Italia, totalmente indifesa
ed indifendibile per l'ostinazione persino a negare l'esistenza di
qualche pericolo prossimo venturo, si viene riempiendo di gente che
arriva da regioni poverissime. Questa massa fatta di popoli diversi
non può essere controllata e gestita da una macchina statale
esosa ed inefficiente e da un potere politico che aveva fatto del pauperismo
una bandiera ideologica. Nell'arco di un decennio molti gruppi etnici
italiani scompariranno sino ad ingenerare un periodo di confusione e
di sangue. E la storia si ripeterà in questa penisola che è
il passaggio tra l'Africa e l'Europa, tra Oriente ed Occidente.
Introduzione - 4. La dissoluzione dello Stato italiano.
La mutazione
dopo la prima guerra mondiale. Fine dell'Italia piemontese. Il fascismo
crea uno Stato moderno, ma presto assume i connotati di un nuovo padrone.
Finita la seconda guerra mondiale e scomparso il fascismo si riaffacciano
i piemontesi. Il Partito d'Azione. Lotta Continua: una tardiva emulazione
a sinistra del Partito d'Azione. L'inizio della dissoluzione dello Stato
si maschera di anti-fascismo. Riflessioni sul fascismo che era tornato
al Nord ed aveva costruito il primo effimero modello di un'Italia divisa.
Le tendenze antinazionali dei partiti di massa. Sulla guerra partigiana
si costruiscono le glorie militari della nuova repubblica italiana.
I cambiamenti determinati dal crollo dell'impero sovietico. La tesi
che si propone. Il dramma (o la farsa) della cultura italiana. I capitali
resi disponibili dalla nazionalizzazione dell'industria elettrica aumentarono
le possibilità di errore della nostra tecnocrazia. Il malsano
rapporto con la tecnica. Come giustificare il caso italiano.
LA SCARSA INFLUENZA DELLA TECNOLOGIA NELLA RECENTE STORIA ITALIANA
La realta' italiana. L'influenza trascurabile della ricerca e delle tecnologie
sulla produzione industriale.
1) La "controcultura" ed il suo ruolo nello sviluppo industriale
italiano. Il numero dei brevetti per l'Italia non rispecchia il livello
tecnologico del suo sistema industriale. Le ra-gioni del nostro rifiuto
del progresso tecnologico. Le possibili cause della nostra anomalia.
Il ruolo delle piccole e medie aziende.
2) Anthony Daniels mette a confronto Italia ed Inghilterra. Le vicende
dell'industria inglese. L'influenza negativa del tanto celebrato sistema
politico britannico.
3) Limiti dell'espansione dell'economia italiana fondata sulla "controcultura".
La deriva del sistema Italia, privo di una qualsiasi politica industriale.
La differenza tra saper convincere e saper fare. Un potere politico
che non ha creato una cultura dominante. La cultura italiana è
un'appendice del potere politico consociato, che è stato un potere
di sinistra. Lo chiarisce un dibattito tra due esponenti della cultura
politica: Paolo Mieli e Biagio De Giovanni. Il ruolo storico della controcultura.
La non-arte della controcultura. Il ruolo fondamentale delle industrie
di Stato. Conseguenze spiacevoli della nostra debolezza tecnologica.
Il ruolo delle tangenti è diventato essenziale.
4) Un caso interessante: l'assorbimento della Germania Est nella nuova
grande Ger-mania europea. Cosa avvenne quando la Germania si riunificò.
5) Gli aspetti "tecnologici" della riunificazione tedesca. L'epurazione politica e culturale nell'ex Rdt. Il confronto con l'Italia.
6) Esiti politici,sociali ed economici della politica tecnologica in
Italia. La visione premonitrice di Pasolini, con qualche errore storico
L'intolleranza radicale dei marxisti. La carriera dei cultori della
rivoluzione dell'indomani. Le amare conclusioni.
7) La storia italiana recente vista attraverso il ruolo della "controcultura". Gli Stati diventano colonie del grande capitale tecnologico. La domanda
di rito: Dove stiamo andando?.
Introduzione
La dissoluzione dello Stato italiano.
Oggi si possono avanzare dubbi sul fatto che l'Italia sia ancora uno
Stato nel senso stabilito dalle convenzioni internazionali. Ma gli stessi
dubbi pare siano esistiti sin dai primi anni della creazione dell'Italia
come Stato moderno. Per calcolo politico forse non si disse mai la verità.
I piemontesi concepirono l'unità d'Italia più come una
conquista territoriale che come un'aggregazione spontanea. Ma la storia
d'Italia è stata scritta coprendo molti fatti oscuri, in modo
da dare agli italiani un quadro commovente ed edificante. Il capolavoro
della doppiezza dei futuri padroni si ebbe con l'affonda-mento, ad opera
della marina militare piemontese, della nave sulla quale viaggiava il
patriota e scrittore Ippolito Nievo, incaricato da Garibaldi di portare
a Torino le "pezze" giustificative delle spese sostenute
dalla spedizione dei "Mille". Era una nave a vapore, una delle
migliori tra quelle presenti nel porto di Palermo, il mare era calmo,
ma si riuscì ad accreditare la versione del naufragio. Con la
distruzione delle "fatture" Garibaldi non avrebbe potuto difendersi
dalle accuse di furto che i solerti funzionari di Cavour gli stavano
preparando. Veniva in tal modo inaugurata una sorta di via giudiziaria
della politica. Quindi a Teano Garibaldi dovette cedere al Re del Piemonte,
senza condizioni, tutto il sud, che egli aveva conquistato con l'appoggio
dell'Inghilterra e della borghesia meridionale. Dopo la caduta del
Regno delle due Sicilie, tutte le regioni italiane non soggette al diretto
dominio austriaco, vennero annesse al Regno Sabaudo senza alcuna condizione.
Eppure si trattava di un Regno che proprio italia-no non era. Sino al
1856 le sentenze dei tribunali del Regno Sabaudo erano scritte in francese.
I piemontesi che occuparono gli stati italiani non parlavano l'italiano.
A tutti gli effetti i piemontesi erano invasori che si apprestavano
a governare grazie al favore della Francia, al larvato appoggio dell'Inghilterra
ed al sostegno di una minoranza costituita dalla media borghesia infatuata
degli ideali nazionalisti. Sotto il dominio piemontese gli eroi del
Risorgimento non ebbero vita facile. Mazzzini morì a Livorno
dove, rientrato dall'esilio, viveva sotto falso nome. Garibaldi finì
i suoi giorni in una specie di volontario esilio, in realtà agli
arresti domiciliari nell'isola di Caprera, anche se gli era concesso
ricevere le visitate di donne ed uomini illustri. Solo i garibaldini
che si affrettarono a diventare fedeli sostenitori di Casa Savoia ebbero
qualche peso nella vita politica dell'Italia unita.
La mutazione dopo la prima guerra mondiale. Fine dell'Italia piemontese.
La prima guerra mondiale, secondo alcuni, fu per gli italiani l'ultima
guerra per l'indipendenza della nazione. Fu una guerra che, pur fra
contrasti, vide la partecipazione attiva degli operai e dei contadini,
rimasti invece estranei al Risorgimento. A guerra finita si scoprì
finalmente che la classe dirigente era incapace di condurre il paese.
Sino alla prima guerra mondiale il dominio piemontese, con l'appoggio
della borghesia italiota formata all'ombra di quel dominio, era riuscito
a mantenere negli italiani la convinzione che essi vivevano dentro uno
Stato nazionale e che erano ben governati. Ma questa convinzione si
frantuma con la sconfitta di Caporetto, dove esplode tutta l'incapacità
e la bestialità della classe dirigente di stampo piemontese.
La sconfitta militare rivela agli italiani la necessità di liberasi
dello spirito piemontese, che aveva sino ad allora inculcata la convinzione
delle capacità militari e delle virtù civili dei padri
della patria e dei loro eredi. Alla fine della prima guerra mondiale.
Il governo italiano, ancora di stampo piemontese, apparve essere in
realtà un dominio di classi privilegiate ed inette. E fu il fascismo
a provocare il mutamento radicale, che alla fine travolse anche l'immagine
della monarchia sabauda, conservata in vita per lasciare integra la
facciata e poter più facilmente mutare le basi dello Stato. Il
processo fu lungo e proseguì per alcuni decenni dopo la fine
dello stesso fascismo ma i risultati furono diversi da quelli auspicati.
Il fascismo crea uno Stato moderno, ma presto
assume i connotati di un nuovo padrone.
Inizialmente il fascismo fu visto dai più come la salvezza della
patria. Poi anche il fa-scismo venne percepito dagli italiani come una
nuova forza di dominio. Contro il fa-scismo, dopo il primo quindicennio
dedicato proficuamente a costruire le basi di uno Stato moderno, gli
italiani iniziano una sotterranea resistenza, che finirà per
rivelarsi non solo come una forma di opposizione politica, ma principalmente
come una forza di dissoluzione dello Stato nazionale.
Il fascismo fu la liberazione degli italiani dalla dominazione piemontese.
Pochi pie-montesi furono fascisti. Questo dopo la guerra venne ascritto
al loro amore per la li-bertà e la democrazia. Ma fu millantato
credito. La cultura piemontese non fu antifa-scista per anelito verso
la libertà. In realtà essa avvertì che il fascismo
avrebbe aboli-to il monopolio piemontese, che aveva fatto dei piemontesi
gli artefici e i padroni della realtà politica ed economica,
creando prassi di governo che concepivano una società tutt'altro
che libera e democratica.
Finita la seconda guerra mondiale e scomparso
il fascismo si riaffacciano i piemontesi. Il Partito d'Azione.
A tal fine è istruttiva la lettura di alcuni scritti di Luigi
Einaudi, contenuti nel libro: "Prediche inutili", pubblicato
nel 1959 dal figlio Giulio con la Casa Editrice che porta il suo nome.
Superato lo sgradevole impatto con il suo periodare goffo e ridondante,
si scoprirà che la grettezza di Einaudi trova corrispettivo nel
sogno sottinteso di ripristi-nare il predominio piemontese, che si era
formato sin dalla creazione dello Stato ita-liano. Un predomino che
si mascherava dietro una spocchiosa e falsa "buona ammi-nistrazione,
che i piemontesi erano convinti di essere legittimati ad imporre al
resto degli italiani, tutti spaghetti e mandolino. afflitti da una cronica
propensione e far nul-la, capaci al massimo di fare i camerieri per
servire i ricchi e saggi europei (in realtà gli scandali nell'italietta
furono colossali, dalla svendita dei beni demaniali al sac-cheggio delle
proprietà della Chiesa, sino allo scandalo della Banca Romana).
Ma le pretese di rivincita dei piemontesi vennero battute alle prime
elezioni politiche del do-poguerra, insieme all'ipocrisia di quei nobili
padri della patria, che si erano dati con-vegno nel Partito d'Azione.
Lotta Continua: una tardiva emulazione a sinistra
del Partito d'Azione.
Più tardi apparve a sinistra un gruppo politico che era simile
al Partito d'Azione. Era Lotta Continua, un gruppo di giovani per lo
più provenienti dalla buona borghesia, colti, spocchiosi e protetti
da un sano disprezzo verso la classe operaia. Oggi quei giovani, diventati
adulti, ricoprono posti importanti in quasi tutti i partiti politici,
dalla destra alla sinistra. Hanno posti di rilievo nelle banche, negli
organismi pubblici ed in quelli privati. Sono spesso in polemica tra
loro, ma sono accomunati dal successo largamente immeritato. Il loro
contributo alla progressiva dissoluzione dello Stato si è svolto
in tempi successivi, e si è fondato sulla fede nell'internazionalismo
marxista.
L'inizio della dissoluzione dello Stato si maschera di antifascismo.
Il fascismo liberò gli Italiani dal "piemontesismo"
ma in questo modo, involontaria-mente, mise in moto una deriva antinazionale.
Il fascismo era nato localista, ma presto i vertici del partito provvidero
ad estinguere questo aspetto indesiderato in una logica di potenza.
Aspetto localista che invece Sturzo aveva incoraggiato nel Partito Popolare
dei cattolici. La deriva antinazionale continuò sotterranea andando
ad alimentare una tenue e latente opposizione al fascismo, che nel
frattempo aveva assunto connotati fortemente nazionalisti e centralisti.
Gli italiani, ormai sulla strada della dissoluzione dello Stato nazionale,
assunsero poi Il fascismo stesso come nuova forza di occupazione del
paese, una forza che, a dif-ferenza dei "piemontesi", non
aveva alcuna dipendenza da paesi europei, era "pro-vinciale",
era italiana, ma era anche incline al bluff e a giocare sulle apparenze
e sulla demagogia, aspetti che si ingigantiranno dopo la guerra e dopo
il fascismo.
Riflessioni sul fascismo che era tornato al Nord
ed aveva costruito il primo effimero modello di un'Italia divisa.
Quando si verificò la frattura al vertice del partito fascista
in occasione della celebre riunione del Gran Consiglio con l'ordine
del giorno Grandi, la Monarchia poté interve-nirecon l'arresto
di Mussolini perché questi aveva perduto il consenso popolare.
Fu un intervento velleitario, che contribuì ad accelerare la
dissoluzione dello Stato. Il Re si accorse che non solo il fascismo-monarchico
era morto, ma anche il consenso verso la monarchia si era molto affievolito.
Il fascismo risorgerà poi come forza nazionale repubblicana,
dando vita al governo di Salò, il primo governo del Nord, un
governo che ebbe un consenso molto maggiore di quello attribuitogli
dagli storici del regime postbellico. Si può vedere nel governo
di Salò una sorta di anticipazione della seces-sione oggi proposta
dalla Lega.
Ma la causa vera dell'autodistruzione dello Stato nazionale è
da ricercare in quella deriva antinazionale iniziata con la liberazione
dal dominio piemontese, in realtà uni-co ed esclusivo artefice
di un possibile Stato italiano nazionale. Il grido "tutti a casa",
che corse per le caserme italiane quando il Re sabaudo fuggì
precipitosamente da Roma con il figlio Umberto, guerriero da operetta,
con la sua corte insieme all'imbelle Badoglio, fornisce la prova di
quel disfacimento. Ciascuno pensava di potersi tirar fuori dalla guerra
semplicemente uscendo dallo Stato italiano. Fu una diserzione in massa
non giustificata dall'assenza dei capi. Un popolo in gravi difficoltà
i capi se li inventa.
La storia d'Italia del mezzo secolo che è seguito appare incomprensibile
se non si parte dal concetto che l'Italia è scomparsa ed è
stata mantenuta in vita artificialmente solo per una questione di ordine
internazionale e per rendere più agevole il suo con-trollo e
sfruttamento da parte delle potenze che hanno forti interessi nel sistema
economico italiano.
Le tendenze antinazionali dei partiti di massa.
I partiti di massa del dopoguerra non avevano alcun sentimento nazionale.
Il partito comunista era dichiaratamente antitaliano, come dimostrerà,
sino a che durò il favore di Stalin, appoggiando Tito nelle sue
pretese sull'Istria e su parte del veneto, pretese corroborate da una
convincente pulizia etnica. E questo appoggio non procurerà al
PCI alcuna perdita di consenso da parte delle masse. La democrazia cristiana
pro-cederà prima alla svendita di tutto ciò che fosse
appetibile ai vincitori, poi proseguì con altri paesi ricchi
tra i quali la stessa Germania, risorta dalle ceneri della guerra.
Sulla guerra partigiana si costruiscono le glorie
militari della nuova repubblica italiana.
La cosidetta guerra partigiana venne alimentata da chi non ne voleva
sapere di pre-stare il servizio militare nell'esercito di Salò.
Il rifiuto era una dimostrazione della dis-soluzione del senso dello
Stato piuttosto che la manifestazione di un prorompente antifascismo.
L'obiettivo delle bande partigiane era quello di fare attentati ed evitare
lo scontro diretto, lasciando che la vendetta dei nazisti e dei fascisti
uccidesse donne, vecchi e bambini. Finita la guerra e rabberciato il
funzionamento dello Stato, gli italiani, perduti definitivamente i
sogni di grandezza postrisorgimentali, vedono costruire la retorica
della resistenza ai tedeschi ed ai fascisti. Quella che in realtà
fu una guerra civile con pochi momenti di grandezza e molte nefandezze
ignobili, venne eletta a fondamento morale e gloria militare della nuova
repubblica.
In realtà con la repubblica, subentrata allo sfratto della monarchia,
aumentò la disso-luzione dello Stato nazionale. Come ha giustamente
osservato Ernesto Galli della Loggia, la repubblica italiana nasce con
lo stesso germe partitocratico che era già fallito nel precedente
regime monarchico-parlamentare, quello che Mussolini aveva sfrattato
tra il rimpianto di pochi ed il consenso della maggioranza degli italiani.
I cambiamenti determinati dal crollo dell'impero
sovietico.
Con il crollo della forza politica dell'Est comunista e con l'attenuarsi
del contrasto tra Oriente ed Occidente, per gli italiani si spalanca
il baratro ideologico: perdono credi-bilità le ideologie e per
di più momentaneamente gli italiani non hanno un vero pa-drone.
Esiste ancora la presenza rassicurante degli americani a Napoli e nelle
basi della NATO, esiste la possibilità di essere considerati
una nazione a sovranità limitata, ma questo non è sufficiente
a colmare l'ansia ed il bisogno degli italiani di sentirsi guidati,
protetti e governati da un padrone esterno, alieno. L'indipendenza,
che deriva dal possedere la preminenza tecnologica in qualche settore,
improvvisamente appare inopportuna ed in certi casi intollerabile.
Dopo la caduta del muro di Berlino la privatizzazzione di settori nei
quali il potere pubblico si era troppo allargato, diventa improvvisamente,
con il concorso di una sinistra isterica e schizofrenica, necessità
di svendere tutto agli americani ed ai tedeschi, anche per disfarsi
delle prove di aver osato competere tecnologicamente e disturbare i
nobili alleati ed amici. Un esempio clamoroso è offerto dalla
precipitosa svendita della Nuovo Pignone dell'ENI agli ame-ricani, dimenticando
che da quella fabbrica escono le trivelle di grande profondità
indispensabili per le ricerche petrolifere.
La tesi che si propone.
l'attuale società italiana, basata sulle tangenti, deriva dal
fallimento della precedente società tecnocratica. L'impianto
tecnocratico del nostro sistema industriale era stato ereditato ancora
in buona salute dal periodo fascista. Il punto cruciale del fallimento
del sistema Italia nel dopoguerra è il fallimento della tecnocrazia
italiana, un fallimento che si verificò con il concorso di colpa
dei partiti politici, senza tuttavia che la loro responsabilità
all'inizio fosse preponderante.
Dal fallimento della nostra tecnocrazia si cercherà poi di uscire
inventando una società fondata su una rete di legami tangentizi,
quindi una società che, con la capacità persua- siva della
tangente, sopperiva alla persuasione ed alle certezze che sarebbero
dovute derivare da una efficiente gerarchia tecnocratica. Quindi la
"civiltà delle tangenti" nasce dalla necessità
di far funzionare in qualche modo un sistema economico che non poteva
più fondarsi sulla "civiltà della tecnica".
L'attacco forsennato, che le frange armate della sinistra scateneranno
negli anni '70 contro la dirigenza tecnica del nostro apparato industriale,
interpreterà il risentimento dei lavoratori contro una classe
di tecnici che si era dimostrata incapace e si era messa al servizio
del padronato calpestando la tecnica, oltre che la propria dignità.
Mentre la tecnocrazia tedesca e quella giapponese sapranno affrontare
le sfide dell'esplosione della tecnologia, la tecnocrazia italiana
soccomberà pur partendo da un livello che certamente era superiore
a quello del Giappone, mentre il superiore livello tedesco per molti
anni sarà neutralizzato dalle spaventose condizioni derivanti
dalle distruzioni belliche e dalla spartizione del paese imposta dai
vincitori.
La necessità di trovare una soluzione al fallimento della grande
industria italiana, verificatosi negli anni '60, ha fatto nascere e
prosperare l'attuale società tangentizia che si è rivelata
essere l'unico rimedio possibile al tracollo tecnologico.
Il dramma (o la farsa) della cultura italiana.
Dopo la guerra tutta la cultura italiana: quella scientifica e tecnologica,
quella politica e quella umanistica, in tempi diversi per le sue diverse
componenti, finì per arrendersi alle culture esterne. La parte
politica, filosofica ed umanistica, senza esitazioni e con poche eccezioni,
passò armi e bagagli al marxismo militante del partito comunista.
Le altre parti, quelle scientifiche, tecnologiche ed ingegneristiche,
con pochi anni di ritardo, sposarono gli Stati Uniti, dimenticando
e rinnegando i risultati non piccoli raggiunti durante il ventennio
fascista, che venne considerato, dopo la sconfitta militare, periodo
di bieco e totale oscurantismo anche culturale e scientifico.
Una frazione non trascurabile di scienziati fisici preferì omologarsi
all'Unione Sovietica, con una piaggeria persino maggiore di coloro
che avevano optato per gli Stati Uniti. Questa resa senza condizioni
della cultura italiana, una resa che i trattati di pace auspicavano
ma che certamente non potevano chiedere esplicitamente, fu ovviamente
molto gradita ai vincitori e ci procurò non poche benemerenze
internazionali delle quali andammo fieri e menammo vanto senza pudore.
Tuttavia questa resa spontanea e gratuita ebbe un risultato non previsto
dai nostri politici: la gestione fallimentare della nostra grande industria.
La dipendenza acritica dalla tecnologia americana ci tolse ogni autonomia
decisionale, con il risultato che tecnocrati di valore, come Giustiniani
alla testa della Montecatini, si svenarono per "americanizzare"
il loro modo di pensare ed il modo di progettare i loro nuovi impianti,
come nel caso di Brindisi, un impianto imbottito di costosissimi quanto
inutili strumenti di misura e controllo made in USA, mentre la termodinamica
e la chimica, ovvero i principi di base dei processi, erano molto sommari,
essendo subentrata una schiera di progettisti politicizzati.
I capitali resi disponibili dalla nazionalizzazione
dell'industria elettrica aumentarono le possibilità di errore
della nostra tecnocrazia.
La tendenza fallimentare della nostra tecnocrazia crebbe con le crescenti
disponibilità di capitali derivanti dalla nazionalizzazione dell'industria
per la produzione dell'ener-gia elettrica. Questo fu il primo grande
fallimento dell'Italia del dopoguerra e si tratta di un fallimento le
cui cause certamente non risalgono all'immoralità tangentizia.
Infatti la nostra tecnocrazia, di origine e formazione fascista, era
onestissima ma istupidita dall'ansia di americanizzarsi. E come noto
l'ansia, anche se americanofila, non è un argomento del codice
penale. I politici si trovarono tra le mani una grande industria privata
incapace di competere sul piano internazionale, pur annegando nei capitali,
mentre le piccole e medie industrie, pur prive di mezzi finanziari,
stavano dimostrando di sapersi battere con successo. I politici dedicarono
tutte le loro attenzioni alla prima, utilizzando le collaudate formule
di salvataggio, come l'IRI, creato con successo dal fascismo, ma non
poterono esimersi dall'inserire nell'operazione dosi crescenti del nuovo
veleno: il meccanismo delle tangenti politiche.
Germania e Giappone, uscite sconfitte dalla guerra con distruzioni molto
più gravi delle nostre, compirono un diverso cammino, che porterà
quelle due nazioni ai vertici mondiali del potere industriale ed economico.
Il Giappone americanizzò la facciata ma conservò il potere rigidamente
nelle mani delle grandi famiglie. L'industria giapponese venne trasformata in senso ipertecnologico, partendo da un livello inferiore al nostro.
La Germania in parte si americanizzò e tuttavia proseguì
la politica economica ed industriale del nazionalsocialismo. Nessuna
tecnocrazia delle altre nazioni industriali fece errori così
clamorosi come la nostra (fatta eccezione per l'Inghilterra).
Il malsano rapporto con la Tecnologia.
La storia del nostro strano rapporto con la Tecnologia ha inizio subito
nel primo do-poguerra. Quando da noi si scoprì l'importanza di
una politica della Scienza e della Tecnologia, si venne sviluppando
un'infuocata disputa di carattere ideologico e politico. Quando le
sinistre si resero conto che la crescita delle conoscenze scientifiche
e tecnologiche era, o sarebbe potuta diventare presto, il principale
punto di forza del-l'industria, investirono molte energie per impedire
che l'industria privata italiana potesse avere accesso alle nuove tecnologie.
I comunisti in Italia sostennero che la ricerca finanziata dallo Stato
non doveva andare a vantaggio dell'industria privata. Questa bestialità
veniva detta ed imposta ai governi a guida democristiana quasi fosse
cosa ovvia, mentre nel resto del mondo si veniva creando un sistema
di conoscenze tecnologiche che avevano costi e rischi di "produzione"
così alti da divenire non accessibili alla singola industria
privata, che quindi esigeva ed otteneva, per la ricerca tecnologica,
sovvenzioni governative di vario genere. E' interessante ricordare che
negli USA molte industrie, che lavorano su commesse pubbliche, ricevono
dallo Stato, pagando affitti simbolici, edifici ed impianti. In Italia
la stessa industria pubblica, per intenderci quella dell'IRI, Efim,
GEPI e quant'altro, ha trovato molte difficoltà per accedere
ai risultati della ricerca a finanziamento pubblico, per il prevalere
di una mentalità accademica sempre più avulsa dai problemi
reali. Infine l'atteggiamento dei dirigenti industriali divenne progressivamente
del tutto contrario a correre i rischi derivanti dall'innovazione.
Come giustificare il caso italiano.
Si vuole qui ricordare che l'Italia a guerra finita disponeva di molti
impianti industriali ancora in funzione, che seppe ricostruire rapidamente
quelli distrutti, ed entrare nei mercati del dopoguerra con una schiera
di tecnici molto preparati e con maestranze laboriose e tenaci. Ma,
pur avendo avuto il vantaggio di una partenza di gran lunga migliore,
l'Italia vide poi la Germania ed il Giappone vincere la guerra pacifica
della concorrenza economica ed industriale, e diventare poli del potere
tecnologico mon-diale. Senza ricorrere al paradosso del nostro innominabile
bisogno di essere servi, non è facile spiegare, soprattutto ai
giovani, perché, dopo cinquant'anni, l'Italia è av-viata
verso un costante decadimento. E' difficile spiegare perché noi
italiani siamo oggi così privi di forza tecnologica, quindi privi
di orgoglio, privi di cultura critica co-struttiva ed incapaci persino
di riflettere sulla nostra storia recente e di cercare le vere cause
del nostro decadere. Il ripudio dell'innovazione, è certamente
all'origine dalla nostra incapacità di governare le forze che
agiscono nel mondo di oggi, forze che hanno radice nell'innovazione.
LA SCARSA INFLUENZA DELLA TECNICA NELLA RECENTE
STORIA ITALIANA.
La realtà italiana. L'influenza trascurabile della ricerca e
delle tecnologie sulla produzione industriale.
La reale influenza esercitata dalla tecnologia e dalle innovazioni sulla
produzione in-dustriale e sull'economia italiana costituisce un aspetto
certamente importante, anche perché gli economisti cominciano
ad avere dubbi sulla validità degli schemi usati per stabilire
il legame tra crescita tecnologica e crescita della produzione industriale.
La crescita della produzione dipende da molti fattori, tra i quali la
progressiva diminuzio-ne dei costi di produzione, l'allargamento del
ventaglio merceologico e l'aumento del-la qualità dei prodotti,
oltre ovviamente all'aumento della domanda. Certamente la crescita della
produzione non modifica il calo tendenziale del profitto, ma anzi per
certi aspetti ne costituisce una causa.
Per l'analisi della realtà pregressa utilizziamo un lavoro dell'ISRDS
del CNR (autori: D. Archibugi, R. Evangelista e M. Pianta (1)) dal titolo:
"Il dilemma tecnologico".
"Le risorse destinate alla produzione di nuove cnoscenze scientifiche
e tecnologiche sono un fattore fondamentale per ogni aese. Nonostante
i processi di globalizzazio-ne dell' economia, l'ampiezza del trasferimento
internazionale di tecnologia, l'esisten-za di una pluralità di
fonti innovative, non è pensabile di costruire un moderno siste-ma
innovativo in assenza di un sostanziale sforzo endogeno."
E' difficile considerare gli attuali processi di globalizzazione, la
crescita del trasferi-mento internazionale di tecnologia e la molteplicità
delle fonti di innovazione, altret-tanti elementi di compensazione della
carenza nella produzione endogena di innova-zione. Al contrario un investimento,
che sia orientato a realizzare esclusivamente im-pianti di produzione,
dipenderà totalmente da chi gestisce l'innovazione contenuta
in quegli impianti. La produzione di innovazione, che comprende anche
lo stadio del-l'applicazione finale nei processi di produzione, ha già
in sé una produzione con un valore economico rilevante, anche
se si tratta di una produzione immateriale. In altre parole il trasferimento
di tecnologie non è gratuito, come non è gratuita la cessione
di beni economici materiali.
Si viene formando un controllo globale dell'innovazione da parte di
pochi gruppi e-gemoni, che coniugano la disponibilità di grandi
capitali di rischio con il possesso del-le nuove tecnologie, elaborate
sino al minimo dettaglio operativo per impartire tutte le istruzioni
necessarie alle macchine utensili di una qualsiasi fabbrica situata
in un qualsiasi punto del pianeta. Il possesso della tecnologia diviene
oggi il principale strumento del potere, che è tecnologico e
capitalistico. Essendo sempre più scarse le risorse finanziarie
e le conoscenze a disposizione dei produttori finali di beni, è diffici-le per costoro impossessarsi delle nuove tecnologie con le quali
rendersi autonomi.
E' importante insistere sul concetto di sistema innovativo, che include
non solo i la-boratori di ricerca e le strutture delle imprese, ma anche
tutto il settore pubblico, che contribuisce indirettamente a creare
innovazione attraverso le scuole, i servizi sociali e le infrastrutture
di supporto. Poiché oggi i mercati sono globali ed ogni impresa
de-ve confrontarsi con il sistema produttivo planetario del suo settore,
ad ogni impresa r richiesta una grande specializzazione tecnologica
ed organizzativa. Lo stato di salu-te dell'economia di un paese si misura
quindi valutando la forza dei settori nei quali esso è vincente,
trascurando quelli che sono marginali, spesso destinati in breve tempo
a scomparire per insufficiente competitività. Tuttavia se una
nazione abbando-na settori merceologici senza compensare con l'aumento
della produzione nei suoi settori forti, l'economia di quella nazione
evidentemente si contrae. Il testo così prosegue:
"Nonostante l'incremento conseguito negli ultimi quindici anni,
l'Italia continua a dete-nere una quota piuttosto contenuta della R&S
totale dei paesi OCSE: poco più di un terzo di quella tedesca, un quinto
di quella giapponese e un quattordicesimo di quella statunitense. Considerata
l'importanza delle dimensioni assolute nelle attività di ricerca
e delle economie di scala... che possono realizzarsi in un sistema nazionale,
risulta chiara l'importanza che la permanenza di forti asimmetrie nelle
dimensioni as-solute dei poteziali tecnologici e scientifici ha nel
condizionare l'evoluzione dei model-li di specializzazione nazionali.
Un quadro simile (in realtà ben peggiore n.d.a.) e-merge anche da un'analisi
dei dati relativi ad un indicatore delle conoscenze con fi-nalità
commerciali quali il numero dei brevetti. ...Possiamo tuttavia assumere
che i paesi europei abbiano il medesimo interesse a proteggere le proprie
invenzioni tanto sul mercato europeo che in quello statunitense, e ciò consente di confrontare diret-tamente l'Italia con gli altri tre maggiori
paesi europei."
Se i diversi paesi europei (ed in generale i paesi industrializzati)
avessero tutti il me-desimo interesse a proteggere le loro invenzioni
allora il numero dei brevetti conse-guiti costituirebbe un indice delle
reali dimensioni tecnologiche dei singoli paesi.
1) La "controcultura" ed il suo ruolo
nello sviluppo industriale ita-liano.
Ma questa ipotesi non è verificata nel caso Italia. Infatti una
parte importante della nostra struttura industriale è stata costruita
dalla "controcultura". Che cosa si debba intendere per "controcultura" è difficile da definire poiché si tratta di una corrente
di pensiero e di atteggiamenti che tutti hanno come principale carattere
quello di non voler apparire, di mimetizzarsi dietro le strutture istituzionali
e dietro la cultura domi-nante. La struttura industriale, che idealmente
fa riferimento alla controcultura, è composta da industrie medie
e piccole, che vivono in una sorta di mondo marginale e nascosto. In
moltissimi casi queste industrie preferiscono evitare il brevetto. Infatti
il numero dei nostri brevetti è ridicolmente basso e non è
correlabile alla nostra produ-zione industriale, che invece in alcuni
settori è ancora a livello degli altri grandi paesi europei per
qualità e quantità.
"L'Italia detiene appena lo 0.85% del totale mondiale dei brevetti
rilasciati negli USA nel 1990, una quota sostanzialmente più
bassa di quella degli altri tre principali paesi europei e addirittura
in netto declino rispetto tanto al 1980 e addirittura al 1971, Il po-tenziale
tecnologico italiano risulta lievemente più consistente se si
prendono in con-siderazione i brevetti domandati presso l'Ufficio Europeo
... L'Italia, in proporzione al suo PIL, ha aumentato significativamente
la spesa per R&S, passando dallo 0.85% del 1971 all'1.35% del PIL
nel 1990....ma siamo ...ben lontani dagli ambiziosi obiettivi enunciati
dalle più alte autorità politiche del nostro paese, che
a cuor leggero pro-misero nel 1986 che la spesa per R&S in Italia
sarebbe raddoppiata fino a giungere al 3% del PIL nell'arco di un quinquennio."
Il numero dei brevetti per l'Italia non rispecchia
il livello tecnologico del suo si-stema industriale.
Ma uno dei principali indicatori della forza tecnologica di un paese è dato dal numero dei brevetti in rapporto al PIL. Orbene siamo
ad un settimo del livello della Germania e meno di un terzo di quello
di Francia e Gran Bretagna. Inoltre la distanza dell'Italia dal Giappone,
dalla Germania e dalla Francia si è molto accresciuta durante
gli ultimi venti anni. Quindi l'Italia sembra contraddire l'esistenza
di un legame tra la produtti-vità industriale di una nazione
e la sua dimensione tecnologica.
"Negli anni '80 le prestazioni economiche italiane, misurate dagli
indicatori quali la crescita, la produttività e, fino a un certo
punto, anche la competitività internazionale, sono state sostanzialmente
positive, e comunque non certo così lontane dai paesi avanzati
come (invece) indicherebbero gli indicatori tecnologici."
Questo risultato non stupirà se, dopo aver seguito il cammino
di questa analisi, ci si sarà formata la convinzione che l'industria
italiana, risorta dopo la seconda guerra mondiale, in realtà è costituita esclusivamente dalla piccola e media industria e
da qualche settore della grande industria a finanziamento pubblico,
essendo queste le uniche industrie che producono ricchezza e non vivono
di finanziamenti dello Stato sotto forma delle più varie sovvenzioni.
Le ragioni del nostro rifiuto del progresso tecnologico.
L'andamento della spesa per la R&S in Italia evidenzia come l'ostacolo
a produrre più innovazione non sia da cercare nell'insufficienza
dei finanziamenti destinati alla ricer-ca. Infatti la crescita dei finanziamenti
ha coinciso addirittura con una riduzione del nostro patrimonio tecnologico
misurato con il numero di brevetti. L'ostacolo deve es-sere quindi di
natura sociale e ideologica. Esso si annida nel rifiuto degli effetti
sociali e politici che derivano dalla presenza di chi è autore
in prima persona dell'innovazio-ne. Noi italiani ci rifiutiamo di riconoscere
a queste persone un qualsiasi vantaggio o potere per aver avuta la capacità
di saper fare. Maggiori finanziamenti alla R&S han-no il solo risultato
di risvegliare maggiori interessi "politici" attorno a questa
elargi-zione di pubblico denaro, con la conseguenza che i finanziamenti,
a chi merita di ri-ceverli, diminuiscono. Questo atteggiamento
ha radici molto antiche nella storia del-la civiltà italiana.
Certamente, come si rileva nel lavoro citato, "obiettivi più
contenuti sarebbero stati facilmente raggiunti se, invece di altisonanti
promesse, fossero state messe in atto politiche più concrete".
Ma il non aver messo in atto politiche più concrete non è,
co-me si dice poi, uno dei casi di politica economica del tempo perduto.
Al contrario questa è una scelta precisa, un rifiuto cosciente,
anche se non apertamente dichiara-to, delle conseguenze, per noi sgradevoli
ed insopportabili, dei risultati delle ricerche, se risultati positivi
vi fossero. E tra queste conseguenze citiamo ad esempio il contat-to
diretto con gli autori dell'innovazione, autori il cui prestigio sociale
dipenderebbe esclusivamente da incontestabili meriti derivanti da ricerche
coronate da successo. Questi autori, questi tecnici incontestabilmente
bravi, non sarebbero condizionabili, certamente deborderebbero e strariperebbero
e metterebbero in crisi la piramide del potere fondata, in Italia, sull'incompetenza
tecnica istituzionalizzata. Quindi non si debbono avere risultati dalle
ricerche condotte in Italia! E se proprio risultati ci fossero si pubblicano
su riviste estere e da noi non se ne parla. Le conoscenze necessarie
per lavorare si comperano. Siamo anche disposti a mascherare il nostro
feroce rifiuto di ogni tecnocrazia con una totale mancanza di fede nel
progresso tecnico e nelle trasformazioni che esso opera.
La Pantera dimenticata
Il governo Craxi cercò di ristabilire un legame fisiologico tra
industria e centri di studio e ricerca. Si cominciò col chiamare
l'università al compito di appoggiare la crescita tecnologica
della nostra industria, sia con l'aggiornamento delle materie dei corsi
di laurea, sia con la ricerca applicata concordata con le necessità
dell'industria naziona-le. Tuttavia questo encomiabile tentativo trovò
molti ostacoli, non tutti provenienti dal-la sinistra più o meno
estrema, che per decenni ha sperato di poter condurre una lot-ta decisiva
contro il potere delle multinazionali colpendo tutto ciò che
in Italia potesse somigliare a quel potere. E' accaduto che vennero
prese di mira alcune già fragili in-dustrie italiane, soprattutto
quelle che erano dotate di una tecnologia elevata e che quindi potevano
infastidire proprio quelle multinazionali che i fanatici gruppi e grup-puscoli
della sinistra affermavano a gran voce di voler distruggere. Si scoprì
che esi-steva in Italia un'anima antica nemica della tecnica e principalmente
di qualunque ge-rarchia burocratica sospettabile di essere tecnocratica.
Una burocrazia ottusa ed an-che un poco corrotta induce ad eterne lamentazioni,
ma in fondo è pienamente accet-tabile. La tecnocrazia invece
è vista come il peggiore dei mali. L'attuale situazione, che
ci vede andar in giro ad elemosinare un poco di innovazione tecnologica
(come ad esempio si sta verificando nel settore delle telecomunicazioni)
è stata costruita con scelte precise, che hanno coinvolto l'anima
profonda degli italiani.
Improvvisamente, nel 1987, in un clima politico totalmente diverso da
quello del '68, le principali università italiane, come Palermo,
Napoli, Roma e Milano, tornano ad in-fiammarsi. Sorge spontaneamente
un nuovo movimento studentesco, che sembra invece alimentarsi direttamente
alle lontane fonti ideologiche del '68. Dalle pagine del Corriere della
Sera del lunedì, nel suo spazio: "Pubblico & Privato",
Alberoni dice:
"il movimento è sorto in modo spontaneo, e si alimenta spontaneamente
delle cre-denze, dei principi base della nostra cultura politica, quelli
assimilati, quasi senza accorgersene, durante l'infanzia dalle conversazioni
familiari e dai mezzi di comuni-cazione di massa."
Ma che cosa aveva scatenato un simile movimento di massa? Che cosa aveva
fatto il governo per provocare una reazione così corale, così
generale? E' difficile credere che in un paese occidentale si sia potuta
formare una reazione così mirata contro l'annuncio di una riforma
che aveva il solo scopo di rendere il lavoro dell'università
più adatto alla produzione industriale, quindi più efficiente.
La riforma del progetto Ruberti prevedeva la presenza dei rappresentanti
del mondo della produzione industriale nei consigli di amministrazione
delle università. Questa presenza, insieme ad una accresciuta
autonomia delle università avrebbe dovuto consentire il rapido
finanziamento di attività di ricerca di sicuro interesse per
le indu-strie, anche grazie a norme più rapide per la concessione
di finanziamenti pubblici a parziale sostegno delle ricerche, e per
la possibilità di creare consorzi tra enti pubblici (università
ed istituti di ricerca) ed industrie private. Grazie anche ai consueti
mecca-nismi amplificatori insiti nei mezzi di comunicazione di massa,
il movimento si tra-sformò in rivolta generale contro una proposta
che era stata interpretata come un grave futuro sopruso del governo:
fare un tentativo per introdurre l'industria, e quindi il mercato con
le sue tirannie, ma anche con la sua forza ed i suoi innegabili vantaggi,
nella struttura delle università affinché il loro principale
prodotto, i laureati, fosse più adatto ad entrare nel mondo del
lavoro. Alberoni così prosegue:
"Ogni movimento parla a nome dei valori, contro l'ipocrisia, contro
i compromessi....i temi profondi, sotterranei del nostro sistema politico
non sono mutati. Prima di tutto la fiducia in quello che e' pubblico,
statale, e la diffidenza verso quanto e' capitalistico, privato. Il
progetto di legge Ruberti prevedeva un rapporto più stretto fra
università e imprese economiche. Fin dall'inizio del movimento,
a Palermo, questa proposta e' stata condannata. "Via le mani del
capitalismo dall'università. Sono i vecchi temi del populismo
cattolico e del populismo marxista."
Ma è necessario andare oltre questa interpretazione. Palermo
non è Bologna o Fi-renze oppure Padova, capitali del pensiero
marxista le prime due e di quello cattolico l'ultima. La rivolta assume
un'importanza fondamentale, per la futura formulazione di una politica
tecnologica in Italia, proprio perché non è nata in una
delle capitali del pensiero cattolico o marxista e quindi il suo reale
significato può essere ben diverso da un movimento nato dal grembo
della sinistra. Proseguiamo esponendo la tesi di Alberoni.
"L'Italia è un Paese capitalistico che continua ad avere
una cultura politica anticapita-listica." - Ecco la cultura dominante
di sinistra e l'anticultura, quasi fuori legge, che invece lavora e
produce - "Tutti si lamentano dell'invadenza della politica, dell'ineffi-cienza
dell'apparato dello Stato. Però, intimamente, diffidano del mercato
e ripongo-no la loro fiducia proprio nello Stato. Un altro tema è l'egualitarismo. La riforma Ru-berti prevedeva due livelli universitari:
il diploma e la laurea."
Solo dopo il 1992 sono iniziati molto stentatamente i corsi per assegnare
i diplomi u-niversitari. A questo siamo stati costretti poiché
rischiamo di essere invasi da diplo-mati che hanno ottenuto il titolo
in un paese della Comunità Europea, poiché quei titoli
di studio hanno ora validità anche in Italia.
"... noi abbiamo un grande bisogno di competenze intermedie. Per
esempio i nostri ospedali sono paralizzati dalla mancanza di infermieri.
Questi sono pochi, poco pa-gati, non hanno prospettive di carriera.
In compenso c'è un pauroso eccesso di me-dici. Bisognerebbe creare
una ... carriera per infermieri, con ... diplomi universitari, specializzazioni
e livelli retributivi adeguati. Questa riforma non è mai stata
fatta per-ché ha sempre prevalso l'egualitarismo sindacale. ...
Ma anche perché il movimento politico del 1968 non ha voluto
i diplomi intermedi: "No, non deve esserci laurea di serie A ed
una di serie B, tutti eguali!". Il nuovo movimento riprende esattamente
gli stessi temi, vuole l'università per tutti, la laurea per
tutti, lo stesso lavoro per tutti, for-se addirittura la stessa retribuzione
per tutti. E' la società moderna specializzata, dif-ferenziata,
che funziona solo prevedendo sistemi di carriera articolati? Agli studenti
non interessa. Essi esprimono l'esigenza ideale dell'uguaglianza, il
resto non li ri-guarda. Troviamo così la terza radice della nostra
cultura politica, l'idealismo e la demagogia. Da dove prenderà
le risorse lo Stato? Come potranno funzionare le im-prese se tutti sono
ufficiali e non ci sono più soldati? ... Ebbene questo è un problema che non interessa la nostra classe politica emergente."
Da qui si riconoscono le cause di due fatti che poi si sarebbero verificati:
il primo è la ricostituzione della fascia inferiore della società.
Il secondo è la necessità sociale e politica di far lievitare
il debito pubblico prevalentemente per coprire le spese correnti.
"Vediamo così riprodursi, spontaneamente, dal basso, uno
dei mali maggiori del si-stema politico e della pubblica amministrazione
in Italia. L'incapacità di commisurare razionalmente i mezzi
ai fini, l'incapacità di portare a termine un progetto riformatore.
C'è la dichiarazione enfatica, retorica, roboante, e poi la palude
dell'inefficienza, la furbizia individuale, il nulla."
Ed infatti per i nostri sociologi l'Italia dovrebbe sprofondare nel
nulla poiché nessun indicatore le assicura la sopravvivenza.
Ma quel nulla in realtà ha un nome ed una sua reale presenza:
è la controcultura. Torniamo ora ed esaminare le radici del mo-vimento,
che prenderà il nome di "pantera", da una vera pantera
che in quei giorni era fuggita dalla gabbia e che rimase in libertà nelle regioni dell'Italia centrale.
A Palermo non è possibile agire senza tener conto della presenza
palpabile della ma-fia, sia che si abbia una posizione contraria, sia
che si abbia una posizione favorevo-le. Allora le ragioni che potrebbero
aver creato la "pantera" possono essere state almeno tre:
una che essa nasce per opporsi alla mafia, l'altra per accettare le
diretti-ve della mafia. La terza per eccesso di entusiasmo marxista.
Analizziamo quest'ul-tima.
Ritorna l'opposizione strisciante dei comunisti alla diffusione dell'innovazione
nell'industria privata.
In quegli anni molti giovani siciliani scoprivano il marxismo. Non è
da stupirsi se i ne-ofiti hanno ricalcato, fuori tempo e fuori luogo,
le orme dei loro predecessori del '68. E' vero che ogni commistione
tra Università e Industria era stata osteggiata dal PCI sino
alla fine degli anni '60. Ma si era avuto poi, almeno nelle dichiarazioni
ufficiali, un rovesciamento della posizione di molti esponenti del PCI.
Tra questi benemeriti è da annoverare il professor Giovanni Berlinguer
(quando poi arriverà a fare il ministro del-la Pubblica Istruzione
si dimostrerà invece essere un fanatico esecutore di un pro-gramma
di ispirazione ideologica marxista, contrario ad ogni apertura al privato).
E' strano quindi che il PCI non sia intervenuto per sedare gli animi,
quando il partito a-veva già dovuto riconoscere la sua sconfitta
con il distacco dall'Unione Sovietica, la cui crisi allora già
si annunciava. E' quindi probabile, come sembra, che il PCI si sia accodato
al movimento, dandogli incautamente il suo appoggio, visto che non aveva
avuta la forza di fermarlo. Ma questo rivela che il movimento aveva
altre cause molto forti, forse proprio quelle delle quali si è
già detto: opporsi alla mafia oppure, al con-trario, accettarne
le direttive, in ogni caso essere dentro l'anima del pensiero profon-do
del sud.
In Sicilia ciò che è privato era, ed è tuttora,
in larga misura sotto la diretta influenza della mafia. Ma c'è
dell'altro: per un palermitano onesto avere gli industriali nei consi-gli
direttivi dell'università è peggio che avere la mafia
a dirigere l'università. Si tratta di una mancanza di rispetto
di ruoli e competenze. Il mondo accademico ha una sua sacralità
che nel resto d'Italia è sconosciuta. E la mafia non aveva alcun
interesse che il progetto di Ruberti andasse in porto. Infatti gli "uomini
della cupola" non erano certi di poter entrare con personaggi di
loro fiducia in quei consigli direttivi. Anzi essi temevano che le industrie
del Nord avrebbero inviato uomini di loro fiducia e che la società
siciliana sarebbe stata guidata da un potere tecnocratico che, per un
autenti-co meridionale, è peggio della peste. Per esplicita dichiarazione
di uomini che rap-presentavano lo Stato, allora Palermo era una delle
zone d'Italia dove era quasi cancellato il potere legale dello Stato,
uno Stato ridotto al compito di elargitore di sti-pendi e di finanziamenti
in prevalenza a fondo perso. A parte qualche folcloristica manifestazione
di facciata contro il potere mafioso, non sembra che questa condizio-ne
mafiosa endemica abbia mai turbato molto i pensieri dei giovani universitari
sici-liani. Gli stessi giovani invece si scagliarono, in maniera dura
e senza esitazioni, con-tro il governo italiano che aveva avanzato quella
proposta. E' impossibile pensare che un potere così vasto e ramificato
come quello mafioso in Sicilia, un potere allora sorretto dal consenso
popolare, lasciasse senza guida ed indirizzo i giovani rampolli della
società siciliana alle prese con le difficoltà degli studi
e dell'inserimento in un la-voro connotato dalla "crudeltà"
delle nuove tecnologie. Probabilmente la riforma pro-posta da Ruberti
avrebbe convogliato soldi dell'industria verso le poche università
ita-liane in grado di fare lavoro di ricerca e di formazione di tecnici
veramente utili all'industria. Ma queste poche università non
erano al sud. Quindi niente flussi di denaro da intercettare.
Le radici storiche dell'opposizione alla tecnologia nel sud.
Ma il problema non era solo questo. La realtà è che la
società meridionale ha "stori-camente" scelto una linea
di pensiero e di prassi che rifiuta l'innovazione soprattutto tecnologica,
proprio perché, per sua natura, l'innovazione genera mutamenti
sociali, che rischiano di sfuggire al controllo e di non rimanere nell'ambito
delle vecchie rego-le.
Avendo anche quei giovani rampolli scelto nei fatti una linea di rifiuto,
soprattutto ide-ologica, contro l'innovazione, non ci fu allora e non
ci sarà mai intervento statale, poli-tico o industriale che possa
inserirli nel mondo della produzione del sistema industria-le. Assurdo
è quindi chiedere i redditi che solo un sistema industriale può dare. I nu-merosi interventi statali hanno solo reso cronico il perenne
bisogno di sovvenzioni e sussidi. In quegli anni si stava esaurendo
l'ultima dotazione assegnata alla Cassa del Mezzogiorno, una dotazione
che in totale fu di ben 120 mila miliardi.
Il principio ispiratore del movimento della "pantera" mise
la pietra tombale sopra ogni possibilità di sostenere, con finanziamenti
pubblici, lo sviluppo tecnologico, indispen-sabile per un paese che
vuole restare industriale e non regredire a livello di quarto mondo.
Dopo la "pantera" i politici in Italia sapranno con certezza
che i finanziamenti alla ricerca sono diventati una farsa perché
gli italiani in realtà non credono (e non vogliono credere) nella
propria capacità di costruire innovazione. E' anche apparso chiaramente
che la politica italiana, nel dopoguerra, è stata costantemente
dettata dallo spirito meridionalista. Andare contro la volontà
della gente del sud era impen-sabile. E fu assurdo far pilotare la politica
industriale italiana dalla gente del sud. Questa gente, pur con tanti
meriti, ha tuttavia il peccato di dare alle cariche accade-miche (come
alle cariche in magistratura e nei ministeri) un grande peso sociale
in sé. La ricerca avrebbe portato enorme prestigio alle università
del centro-nord, e questo il sud non poteva permetterlo. Nessuno al
sud capisce che la ricerca non de-ve essere una fabbrica di vincitori
di concorsi a cattedra, ma è un fondamentale strumento di lavoro.
E nessuno al sud ha ancora capito che se il nord non può lavora-re,
perché privato dell'innovazione, certamente non si avranno altri
finanziamenti per "sostenere" il sud.
Quindi la rivoluzione contro il vero rinnovamento dell'università
partì dal sud. Un sud diffidente del nuovo, conservatore, ma
che tuttavia, proprio con il suo voto "conserva-tore" nel
dopoguerra, insieme al Veneto, aveva avuto il grande merito (ed il buon
senso) di salvare anche il centro-nord dalla rovinosa avventura comunista
che in-combeva sull'Italia. Dopo il movimento della pantera la classe
politica sembra con-vincersi che in Italia sarà molto difficile,
se non impossibile, percorrere la strada che stanno tracciando i paesi
industrialmente più progrediti. Anche se questa conclusione può
sembrare affrettata, poiché è difficile immaginare che
i politici abbiano mai avuto sull'argomento una qualsivoglia convinzione,
tuttavia in seguito si smise di fare pro-getti sulla tecnologia come
panacea dei nostri mali. Dopo ci si comportò come se si fosse
arrivati a credere nell'impossibilità storica per gli italiani
di percorrere la strada della crescita tecnologica. Il risultato fu
quindi una rinnovata fioritura di convegni, ta-vole rotonde e congressi
sulla ricerca scientifica. Ma in concreto nessun politico ri-schiò
un'unghia della sua credibilità sull'argomento politica tecnologica.
Le possibili cause della nostra anomalia. Il ruolo delle piccole e
medie aziende.
E' stata avanzata l'ipotesi che, per decisione dei vincitori, dopo la
guerra l'Italia a-vrebbe dovuto svolgere un ruolo del tutto secondario
nell'ambito dell'economia occi-dentale. Per- sino l'attività
di Cinecittà, con il successo dei film neorealisti, dava fa-stidio
agli americani, che incaricarono l' allora giovane Andreotti di mettere
un freno alla nostra risorta cinematografia con la scusa della censura.
La grande industria ita-liana venne devitalizzata grazie ad una serie
di interventi, che iniziarono dall'epura-zione dei quadri dirigenti
per sospetta connivenza con il passato regime. Gli interventi distruttivi
si svilupparono attraverso l'ostilità dei sindacati, pilotati
dai comunisti, per eliminare le aziende non gradite, come quelle ad
alta tecnologia, con la scusa che erano state impegnate nella produzione
militare. Gli interventi proseguirono con l'entrata in scena dei partiti
politici, che chiedevano il pizzo ed imponevano uomini di loro fiducia
nei posti chiave. Persino l'integerrimo Einaudi mise il suo contributo
bloccando il credito nel '47 e arrestando la nostra prima espansione
economica del dopoguerra con la giustificazione che si era creata un
pò di inflazione, che in realtà derivava dalle Am-Lire,
generosamente stampate dagli anglo-americani per pagarsi le spese di
guerra.
Solo le piccole e medie aziende private sfuggirono a questa logica,
insieme a po-chissime grandi aziende, come il gruppo ENI grazie alla
figura di Mattei ed al suo gruppo di tecnici. Gli italiani debuttarono
con lo scooter, un veicolo derivato dalle pic-cole moto, che gli alleati
usavano per spostarsi negli aeroporti. Poi fu la volta dei frigoriferi
e degli elettrodomestici. Ma tutto avvenne tra sotterfugi e difficoltà
di ogni genere. Gli industriali che non accettarono la "protezione"
del partito comunista (nei comuni in cui questo governava), oppure della
mafia (la' dove questa controllava il potere politico), dovettero lottare
contro tutto, a cominciare dal governo di Roma. In questo clima l'innovazione
venne comperata, rubata, prodotta con espedienti incredibili, e poi,
quando trovata valida, tenuta nascosta. I brevetti potevano essere un
modo per far conoscere l'innovazione ai concorrenti, quindi meglio
evitare inutile pubblicità. Alla fine la stessa cultura del
popolo italiano è stata stravolta. Noi siamo cresciuti dentro
un'anticultura, in una continua ribellione alla cultura scientifica
ufficiale, che sentivamo nemica. La cultura accademica, internazionale
non è neutrale, ma è orga-nica al potere dei suoi maggiori
finanziatori, che certamente non hanno a cuore il successo degli italiani.
In Italia questa cultura accademica molto spesso finiva per presentarsi
come portavoce di un progresso di sinistra. La nostra produttività è stata in realtà il frutto di una colossale devianza,
che è iniziata con la necessità di pagare il "pizzo" alla Guardia di Finanza.
Da qui prende l'avvio il sommerso, la cui nascita è concomitante
alla formazione del-la cultura della tangente, quella tangente che poteva
assicurare una zona franca, do-ve era garantita l'autonomia dai poteri
statuali deviati, la salvezza da ulteriori rapine politiche. Ma il sommerso
può vivere sino a che rimane ai margini o fuori dalle leggi e
vive sino a quando può appoggiarsi ad un apparato industriale,
privato e pubblico, in grado di reggersi. Pensare di far riemergere
il sommerso è un'autentica stupidaggine poiché equivarrebbe
a distruggerlo, essendo questo formato da attività che per loro
natura non potrebbero reggere il pieno regime fiscale.
La storia dei protagonisti della piccola industria e del sommerso si
snoda lungo tutti i cinquanta anni del dopoguerra. Essi hanno dovuto
combattere contro le istituzioni, ostili e rapaci, contro i sindacati,
ansiosi di far fallire le aziende private per trascinarle nel campo
dell'azionariato di Stato, contro le decisioni della Comunità
Europea, in realtà propaggine degli interessi del grande capitale
internazionale. C'è stato il periodo della contestazione scatenata
dalla sinistra rivoluzionaria, un miscuglio poco chiaro di legami con
movimenti nati negli Stati Uniti, diventati realmente rivoluzionari
e distruttivi dopo aver attraversato l'Atlantico. Il tutto è stato poi riassorbito nella storia del comunismo italiano ed europeo,
assumendo un significato mitico: il movimento del '68.
C'è stata poi la lunga stagione dei sequestri di persona, sequestri
che hanno colpito spesso sconosciuti personaggi di questa economia "sommersa",
di questa controcul-tura. Quella dei sequestri è stata un'attività
criminale che non si può dire essere oggi conclusa, anche se
non ha più la virulenza degli inizi. Recenti statistiche dicono
che il 73% dei sequestri rimangono impuniti. Si tratta di un reato gravissimo
di fatto tollera-to dal potere politico per realizzare un sussidio compensatorio
verso la miseria di al-cune tra le più misere aree meridionali,
ideologicamente refrattarie ad ogni tentativo di crescita economica.
In realtà viene raggiunto anche il risultato di usare un facile
strumento di ricatto e pressione contro questa categoria sommersa, refrattaria
a subire i condizionamenti dei partiti. Grazie alla linea inaugurata
dal governatore Ciampi, la restrizione del credito alle piccole inziative
artigianali e commerciali ha fatto esplodere il credito clandestino,
l'usura, imparentata strettamente con la criminalità mafiosa.
Infine i piccoli industriali hanno dovuto sopportare "Mani pulite".
Un fatto che molti di essi all'inizio pensavano essere la liberazione
dalle umiliazioni e dai taglieggiamenti imposti da tutto il potere politico,
sino alle sue infime propaggini. In-vece il vero significato di "Mani
pulite" si rivelerà essere una farsa, un modo per scaricare
la rabbia di chi è rimasto fuori della porta, di chi è
frustrato, mettendo alla gogna industriali e politici colpevoli e non,
in un rito liberatorio che un tempo era as-segnato ai giorni di carnevale.
Le tangenti restano mentre il lato politico della saga giudiziaria ha
mostrato di essere niente altro che la strada maestra della scalata
al potere della sinistra comunista in opposizione alla sinistra socialista.
Infatti, con un'operazione altamente selettiva, che ha nascosto i reati
tangentizi dei comunisti e messo in piazza quelli degli altri partiti,
un ristretto gruppo di magistrati, appoggiati anche da una destra idiota,
ha tolto di mezzo l'intera classe politica dei partiti della maggioranza.
Da tangentopoli si è così sapientemente costruito un golpe
giudiziario, che ha trovato l'appoggio neppure tanto mascherato dell'ambasciata
USA in Italia e di gruppi dell'alta finanza internazionale.
2) Anthony Daniels mette a confronto Italia ed Inghilterra.
"Mani pulite", oltre che strumento di una improbabile giustizia,
appare essere stato un mezzo per eliminare politici, industriali ed
interi partiti politici invisi ai reggitori occulti del vero potere
in Italia, oggi un potere così oscuro che si sarebbe persino
tentati di credere che in realtà non esista affatto. La politica
in Italia sembra avesse raggiunto vertici di assurdità e travisamenti
assolutamente ineguagliabili. Ma si può affermare che questo
modo di fare politica ha realmente ostacolato la crescita economica
ed il benessere degli italiani? Crescita e benessere che indubbiamente
si sono verificati. Si può dimostrare che l'Italia sarebbe oggi
molto più ricca e felice se i suoi rappresentanti politici fossero
stati onesti, coraggiosi, competenti e capaci di fare scelte giuste
e preveggenti?
Il giornalista Anthony Daniels (3) sul Daily Telegraph del 30 dicembre
1994 fa un confronto tra Italia ed Inghilterra, paese questo dove la
moralità politica, per antica consuetudine e grazie ad efficaci
strumenti di controllo, pare sia molto superiore a quella vigente in
Italia. Ma Anthony Daniels così scrive:
"One could argue that the Italians have prospered precisely because
they suffer from institutionalised corruption."
Daniels ha il sospetto che l'Italia non si debba giudicare semplicisticamente
utiliz-zando gli indicatori economici usati normalmente nelle analisi
dei sistemi economici. Il titolo del suo articolo è: "Chi
dice che essi hanno bisogno di mani pulite al timone?" Egli parte
dalla constatazione che l'Italia sino ai primi anni sessanta aveva consumi
e benessere paragonabili a quelli di Cuba nello stesso periodo. Dopo
alcuni decenni l'Italia ha un livello di benessere decisamente superiore
a quello della Gran Bretagna, che per almeno tre secoli è stata
economicamente molto superiore all'Italia. Che cosa sia realmente accaduto
in Italia Daniels non lo sa, ma, contro tutte le apparenze, è
convinto che non si tratti di faccende spiacevoli. Pare che il sano
empirismo inglese, di cui Daniels è largamente fornito, gli
impedisca di capire anche ciò che è accaduto in Inghilterra,
e questo fatto è un pò più grave. Mentre l'Italia
era partita dopo la guerra con un bagaglio tecnologico considerevole,
anche se amma-lato di immobilismo, come era apparso chiaramente nel
periodo del mancato sforzo industriale durante la guerra, al contrario
l'Inghilterra usciva dal conflitto con un indiscusso predominio tecnologico
in molti settori, avendo anche dimostrato una grande capacità di crescita proprio durante il periodo 1940-45 del massimo sforzo bellico.
Le vicende dell'industria inglese.
In settori come quello aeronautico e quello elettronico gli inglesi
superavano anche gli Stati Uniti. Nella chimica, dopo la distruzione
dei colossi tedeschi, per almeno un decennio contesero il primato agli
Stati Uniti. Tutto era poi sostenuto da una solida struttura di ricerca,
basata sulla collaborazione delle università e su istituti privati
e pubblici di provate capacità. Inoltre la necessità di
mantenere la guida del Common-wealth richiese la prosecuzione di una
politica di aggiornamento degli armamenti, la cui consistenza avrebbe
dovuto reggere il confronto con quelli americani e russi. La storia
dei fallimenti dei tentativi degli inglesi per mantenere il rango di
grande potenza è anche la storia patetica della fine dell'Inghilterra
come potenza militare ed economica. Gli inglesi fallirono in tutto.
Non riuscirono ad inserirsi nella gara tra Stati Uniti ed Unione Sovietica
per il predo-minio dello spazio. Infatti il loro vettore, il Blue Streak,
non divenne mai operativo. Con l'errore commesso nella costruzione della
fusoliera del Comet persero la possibilità di competere nella
produzione dei grandi aerei di linea dell'aviazione commerciale. Si
dovettero accodare alla Francia per la costruzione dell'aereo supersonico
Concorde, un splendido aereo del quale tuttavia gli americani decretarono
il fallimento grazie ad una serie di ostacoli burocratici negli aeroporti
USA. Il Comet della ditta De Havilland (uscito con la sigla DH106) era
stato concepito ancor prima della fine della guerra, su indicazione
di un Comitato di coordinamento presieduto da Lord Brabazon. Il primo
prototipo volò nel luglio 1949 ed entrò in servizio nel
1952. Nella versione con i motori Rolls-Royce Avon il Comet ebbe un
grande successo commerciale. Ma nel gennaio 1954, dopo l'ennesimo incidente,
avvenuto presso l'isola d'Elba, i Comet venivano fermati per verificare
a terra la resistenza della fusoliera. Si scoprì che la struttura
dell'aereo cedeva per "fatica", uno fenomeno che non era mai
stato preso in considerazione in aeronautica. Il Comet 4, che superava
questo gravissimo errore di progettazione, divenne operativo nel settembre
1958, quando nel frattempo gli americani stavano per mettere in servizio
il Boeing 707, il quadrigetto che era stato progettato utilizzando l'esperienza
del Comet e che lo sostituì. Per gli inglesi fu un colpo mortale
poiché non ebbero più la forza di competere con l'industria
aeronautica americana. Per molti settori industriali gli inglesi ebbero
percorsi caratterizzati da esiti analoghi. Nel settore dell'impiego
pacifico dell'energia nucleare spesero somme ingenti ed alla fine dovettero
ripiegare su reattori americani. Pur disponendo di una elevata tecnologia,
essi non furono in grado di conquistare i nuovi mercati che si aprirono
nel dopoguerra.
L'influenza negativa del tanto celebrato sistema politico britannico.
Gli inglesi, finita la guerra, non furono in grado di pianificare i
loro sforzi. Essi chiese-ro e pretesero l'applicazione puntuale e meticolosa
delle regole della democrazia. Cacciarono nel dimenticatoio la professionalità
e la lungimiranza della loro classe di-rigente, ancora legata ai vecchi
ma non logori schemi aristocratici. Essi iniziarono la stessa decadenza
che colpì la democrazia ateniese, dove i capitali di investimento
venivano tassati per distribuire continue regalie ai meno abbienti.
E' noto che Atene, dotata di un'altissima tecnologia, non poté
compiere nessuna delle grandi imprese che invece furono appannaggio
del sistema industriale di Roma. Gli inglesi vollero avere l'assistenza
medico-ospedaliera gratuita ed una serie di provvidenze sociali il cui
costo non poteva essere pagato dalla loro scarsa produttività.
Per di più pretesero anche di essere onesti, e questo, quasi
certamente, fu il colpo fatale che ricevette la loro economia.
Ma come non è facile capire il percorso della tecnologia italiana
e lo scarso legame con la crescita industriale ed economica dell'Italia,
altrettanto difficile è rendersi conto delle cause che stanno
dietro la caduta industriale ed economica di un paese tuttora ad altissima
tecnologia come l'Inghilterra. Possiamo cercare di enumerare le cause
accertate, tutte sicuramente concorrenti alla disfatta inglese, ma nessuna
di queste può essere riconosciuta come decisiva. L'industria
inglese fu completamente votata alla produzione militare durante la
seconda guerra mondiale. Le difficoltà della riiconversione alla
produzione civile furono enormi. Un ruolo negativo fu certamente quello
che svolse la politica inglese, tutta rivolta alla soluzione dei problemi
sociali in una società per sua natura poco dinamica e conservatrice.
La Gran Bretagna è tutto-ra il paese d'Europa per certi aspetti
socialmente più arretrato. La vicinanza con altri popoli europei,
imposta dai mezzi di comunicazione di massa e dagli scambi molto accresciuti,
si tradusse in una grande richiesta di democrazia sostanziale che tolse
di mezzo la vecchia classe dirigente aristocratica e quindi "permanente".
Le continue alternanze dei governi con la guida dei laburisti e dei
conservatori si tradussero in un continuo mutare dei programmi di intervento
del governo, cosi' che fu impossibile pianificare alcunché. Poiché
continuarono egualmente a fare programmi, e ad iniziarli per interromperli
ad ogni successivo cambio di guida politica, il tutto si risolse alla
fine in uno sperpero colossale di pubblico denaro, sperpero che venne
aggravato dall'onesta' e dal rigore dei pubblici amministratori. Infatti
una certa dose di tangenti avrebbe almeno permesso di inserire nel ciclo
produttivo dei beni di consumo capitali destinati alla pura totale distruzione.
Lo scopo della politica non può essere ridotto, come alcuni oggi
pensano in Italia, all'imperativo di negare uno storno del 2-3% del
totale delle spese statali verso impieghi personali o nell'interesse
di gruppi di potere. La politica è nel soddisfare le aspettative
"vere" della gente. La difficoltà di fare politica
è tutta nello scoprire cio' che la gente veramente si aspetta
senza sapere bene prima di che cosa si tratta. La politica non si fa
con i sondaggi di opinione. I sondaggi possono solo servire a posteriori
per sapere se chi guida ha sbagliato, ma quando ha sbagliato di solito
se ne accorge anche senza sondaggi. E le accuse di furto, non il furto
in sé, sono uno dei modi per dire ad un politico o ad un intero
sistema politico che ha sbagliato e che se ne deve andare. Altra causa
può essere individuata nel crollo etnico della Gran Bretagna,
crollo al quale anche l'Italia oggi va incontro. Questo crollo è poi coinciso con il sopraggiungere di interi gruppi sociali esterni
non facilmente assimilabili, rimasti in atteggiamento questuante verso
lo Stato e le istituzioni. Il periodo del governo della Thatcher alla
fine pare abbia solo aggravato la situazione.
L'Italia invece ha goduto di una sostanziale stabilità politica,
coperta e mascherata da una pirotecnica instabilità di facciata.
I problemi per l'Italia sono cominciati quando l'instabilità
politica, dopo la caduta dell'ultimo governo Andreotti, è diventata
reale.
3) Limiti dell'espansione dell'economia italiana fondata sulla "controcultura".
Ma la realtà cambia e noi restiamo fatalmente fuori gioco. Infatti
la tecnologia assume un ruolo crescente quale fattore di concorrenza
tra aree industriali. Il ruolo delle imprese nella creazione della tecnologia
è diventato sempre più importante, come risulta dalla
maggiore quantità di risorse che le imprese debbono destinare
alla R&S. In tutto il mondo si verifica la tendenza verso la concentrazione
di tecnologia specializzata in aree industriali omogenee. Di fronte
a questa tendenza il sistema italiano sembrerebbe trovarsi in grave
ritardo, soprattutto per quanto riguarda la capacità di produrre
in proprio innovazione. Negli ultimi venti anni, l'industria italiana
ha seguito un percorso di sviluppo diverso da quello delle industrie
concorrenti di altri paesi, an-che se è persino difficile parlare
oggi di un'industria italiana, difficilmente riconduci-bile ad una sola
area omogenea. Per quanto i positivi risultati economici finora con-seguiti
dall'industria italiana possano anche giustificare il comportamento
delle nostre imprese verso l'innovazione, occorre riconoscere che ora
la difficoltà a essere com-petitivi sui mercati esteri è
dovuta principalmente alla mancanza di un livello tecnologico adeguato.
L'esperienza italiana mostra oggi chiaramente quali siano i limiti e
la vulnerabilità di un sistema industriale moderno che basa il
suo sviluppo su una deliberata carenza di forza tecnologica. Ci si
deve domandare come reagiranno le istituzioni pubbliche e le imprese
alla crisi economica, che è iniziata nel 1992, e che non è
ancora al termine. Nei precedenti periodi di depressione l'industria
italiana ha reagito ristrutturando gli impianti per comprimere i costi
di produzione, ma ha anche ridotto gli investimenti a lungo periodo,
nei quali sono incluse le attività innovative. Anche nella congiuntura
attuale sembra che la strada seguita sia sempre la stessa. Ma fino a
quando la sistematica rinuncia alla tecnologia, soprattutto per l'innovazione
nei beni prodotti, potrà essere efficace in futuro come lo è
stata nel passato? C'è oggi spazio per continuare con il vecchio
modello di sviluppo fondato esclusivamente su beni di consumo tradizionali?
Già si vedono chiari segni della inadeguatezza del nostro si-stema
a reggere il confronto sui mercati. La crescente deindustrializzazione
ha as-sunto dimensioni che dovrebbero apparire allarmanti se il potere
politico si decidesse ad aprire gli occhi sui problemi reali.
La deriva del sistema-Italia, privo di una qualsiasi politica industriale.
La risposta del sistema forse sarà quella di andare alla deriva,
adeguandosi, secon-do le leggi del mercato, alla mutata realtà.
La deriva significa ancora una volta entra-re nella spirale svalutazione-inflazione,
con la riduzione dei salari reali e con l'aumen-to della disoccupazione,
mentre la deindustrializzazione è sempre più conseguenza
dall'incapacità di sostituire le produzioni manufatturiere, diventate
obsolete, con altre produzioni che abbiano maggior contenuto tecnologico
e maggiori margini di guada-gno. Il pericolo della deindustrializzazione
in Italia è reso ancor più grave dalla en-demica inefficienza
dei servizi pobblici. Da questa situazione discende la corruzione, che
paradossalmente diventa l'unico reato importante, sentito insieme come
atto su-premo di coraggio e massimo insulto. Il furto del denaro pubblico
è considerato un atto sospeso tra l'eroismo e l'infamia. Si veda
ad esempio l'autentica sollevazione popolare in favore di De Mita nell'avellinese,
dove l'uomo politico ha fatto arrivare, a compenso dei morti e dei danni
del terremoto, grandi risorse finanziarie, peraltro in gran parte distrutte
da opere pubbliche ed iniziative industriali sbagliate. Con queste contraddizioni
gli italiani affrontano il futuro privi di una qualsiasi decente concezione
dello Stato, dell'industria, della cosa pubblica in generale ed oggi
anche di quella privata come la famiglia. Quindi proporre un cambiamento
nel nostro modo di accumulare tecnologia, o meglio proporre un qualche
modo di accumularne, visto che nessun modo di accumulazione oggi esiste
in Italia, è impossibile e del tutto inutile. Le capacità
tecnologiche non si improvvisano e non sarebbe possibile in Italia sostenere
un programma di finanziamenti attorno ad un obiettivo che abbia una
durata superio-re alla durata media di un politico nella carica di ministro.
Nel lavoro sopra citato (1) si pone la domanda se sia possibile ed opportuno
abbandonare settori produttivi in crisi per tentare di "saltare" in altri che dimostrino promettenti sviluppi.
"Quali sono i rischi di fallimento insiti nell'abbandonare le già
sperimentate traiettorie tecnologiche per battere le nuove vie?".
I rischi di fallimento sono molti poiché capacità tecnologiche
vincenti non si improvvi-sano e per raggiungere un livello competitivo
si richiedono investimenti a lungo ter-mine, intelligenza ed un lungo
impegno. Istruttivo è l'esempio del Giappone che do-vette compiere
una lunga marcia per conseguire la supremazia tecnologica in alcuni
settori.
La differenza tra saper convincere e saper fare.
Quindi cercare di entrare in altri settori, dai quali oggi siamo esclusi,
appare velleita-rio e quindi improponibile. Ma anche se il potere politico
in carica decidesse di impe-gnare tutto il suo prestigio nel tentativo
di recuperare all'industria italiana settori che oggi ci sono proibiti,
esso sarebbe in ogni caso destinato al fallimento, anche se ve-nissero
investite risorse finanziarie adeguate e chiamati alla direzione dei
programmi di ricerca persone di indubbio valore. Infatti per far decollare
un qualsiasi program-ma di mutazione della società e delle sue
strutture è necessario che la società sia di-sposta ad
accettare le conseguenze della mutazione. E la mutazione che consegue
all'avvento della fede nella tecnologia comporta la creazione di una
gerarchia sociale fondata sul saper fare. In Italia, se si toglie una
breve parentesi del periodo post-risorgimentale, e prima, durante il
tempo del Rinascimento, ha sempre regnato sovrano il principio che
la gerarchia sociale si costruisce sulla base del saper convincere,
con la parola, con le idee, con il denaro, con la violenza, anche con
l'inganno, ma sempre saper convincere contro e al di sopra di una realtà
obiettiva, della quale si deve ignorare l'esistenza. Uno dei teorici
illustri di questo principio fu Benedetto Croce. La gerarchia del saper
convincere contraddice la gerarchia del saper fare, che al contrario
si fonda sul riconoscimento del valore della realtà oggettiva,
la realtà del mondo fisico. Questo scontro viene riportato nelle
cronache quotidiane dal contrasto tra politica e tecnica, contrasto
che ha avuto il suo momento di massima celebrità negli anni della
condanna di Felice Ippolito. Torniamo al lavoro citato:
"Le analisi disponibili sul sistema innovativo italiano mostrano
che questi dilemmi non sono affatto nuovi. Essi vennero posti, esattamente
negli stessi termini, alla fine degli anni '70. Negli anni '80 non solo
l'economia italiana non ha fatto il salto, ma non ha neppure tentato
di farlo. Si è così perso un decennio, caratterizzato
da condi-zioni macro-economiche relativamente favorevoli e da un tasso
di cambio che poteva consentire ben più ampi investimenti di
lungo termine. Finita l'euforia, il sistema tec-nologico italiano si
ritrova oggi con gli stessi problemi e di fronte alle stesse scelte
di dieci anni fa." (Errore: la sfida è perduta definitivamente
come si vedrà nel seguito. n.d.a.)
Un potere politico che non ha creato una cultura dominante.
Se si vuole cercare una spiegazione politica globale per il caso Italia
si può iniziare da una affermazione ovvia: in tutti i paesi la
classe dominante adotta una cultura che viene resa egemone, mentre le
altre culture, che diventano subalterne, possono convivere, se siamo
in regimi democratici. L'anomalia è data dal fatto che in Italia
la cultura egemone non è stata quella della parte politica dominante,
e neppure della classe economica. Entrambe hanno rinunciato a controllare
la cultura, inclusa quella cultura che è sostenuta dallo Stato.
La parte politica dominante si è limitata ad arginare, in alcuni
casi, lo straripare della cultura costruita ed imposta dall'opposizione
di sinistra. La causa non secondaria di questa anomalia è nella
presenza della controcultura.
La cultura italiana è un'appendice del potere politico reale,
che è stato un potere di sinistra. Un dibattito tra due esponenti
della cultura politica: Paolo Mieli e Biagio De Giovanni.
In Italia, sin dal primo dopoguerra, è esistita l'egemonia comunista
nella cultura. Do-po la caduta del muro di Berlino, la situazione paradossale
esistente sfociò in un raf-forzamento del predominio culturale
comunista, la cui influenza nella formazione del-la pubblica opinione
divenne ancora maggiore. Galli della Loggia lanciò il sasso nel-lo
stagno. Seguirono vasti ed appassionati dibattiti ma alla fine furono
ancora gli intellettuali di sinistra a condurre il gioco del finto processo,
come quello contro la ca-sa editrice Einaudi, principale strumento di
quel predominio comunista. E' interes-sante a questo riguardo un dibattito
trasmesso dalla Radio 3 RAI tra il comunista Biagio de Giovanni e Paolo
Mieli, allora direttore del Corriere della Sera. Mentre il primo disse
che la cultura di sinistra si era imposta per la forza del pensiero
di Gramsci, che seppe mediare tra la nostra iniziale filosofia idealistica-crociana
e quella marxista, il secondo, al tempo nelle vesti di critico del comunismo,
parlò senza reticenze di egemonia culturale del partito comunista
per precisa strategia di Togliatti. Ma la tesi di Mieli, sotto questo
aspetto, è pienamente congruente con il concetto di controcultura.
Dice Mieli:
"La cultura liberale sino agli anni '60 pagò un prezzo alto
perché in qualche modo era sospettata di essersi arresa al fascismo.
La cultura liberale, che sarebbe stata l'anta-gonista di quella marxista
- non nella visione crociana che .. in quel modo fu sussunta da questa
nuova egemonia (quella comunista), ma per quello che riguardava l'a-pertura
al mondo anglosassone - si riaffacciò nel dopoguerra con un tallone
d'Achille, con questo terribile sospetto di essere stata in qualche
modo connivente, non a sufficienza avversaria del fascismo. Non che
Croce fosse stato fascista, però c'era stata una strana convivenza
negli anni '20 e '30. Ed il prezzo questa cultura lo dovette pagare
cedendo il passo. La cultura marxista ne approfittò e questo
fu occasione di esercizio di egemonia politica, oltre che culturale,
da parte del partito comunista, che riuscì a riprendersi in
campo culturale, parlo dell'editoria, del cinema, delle arti visive,
dell'università una rivincita sulla sconfitta elettorale del
18 aprile del '48. ... Togliatti, grazie a questa debolezza degli avversari,
riuscì ad avere una rivincita e a controllare per molti anni,
con Alicata ed i suoi, sostanzialmente la cultura italiana. Vicende
connesse al dibattito culturale delle Botteghe Oscure di casa comunista
provocavano negli intellettuali italiani drammi personali da cui questi
intellettuali non si riavevano..."
Per completare il quadro si deve anche dire che molti uomini, di cultura
fascista o simpatizzanti, dopo la guerra divennero ferventi comunisti
andando ad ingrossare le file degli intellettuali organici all'ideologia
marxista. Coloro che ebbero la folgorazio-ne della conversione al comunismo
ebbero salva la carriera ed anzi molti ebbero una nuova stagione di
successi. Le difficoltà ideologiche per fare questo passo non
furo-no poi così ardue poiché il fascismo, nella sua ultima
stagione: quella della repubbli-ca di Salò, aveva compiuto passi
decisivi verso una forma politica di sinistra. Ma tut-te queste contorsioni
non interessarono molto la grande maggioranza degli italiani che dovette
misurarsi con i duri problemi quotidiani. E gli italiani sperimentarono
la validità della loro vera cultura nella lotta di ogni giorno
contro le infinite difficoltà deri-vanti da una sconfitta militare
e da distruzioni inflitte più per garantire la sottomissio-ne
economica e politica che per affrettare la vittoria.
Il ruolo storico della controcultura.
La controcultura (e non la cultura egemone) è stata in realtà
l'anima ed il vero soste-gno del potere della prima repubblica, anche
se il potere (democristiano) non ha ri-cambiato il favore. L'economia
sommersa, che il potere politico cercò di far entrare nella logica
della sottomissione clientelare (in cui da sempre vive e prospera la
gran-de industria in Italia) è una delle manifestazioni di questa
nostra anomala controcul-tura. E l'economia sommersa è stata
l'unica possibile risposta all'impossibilità di ac-cumulare capitali
di investimenti, impossibilita' che è dipesa dall'essere le detrazioni
fiscali soggette alla benevolenza del potere politico e burocratico,
e dall'essere stato ostacolato l'accumulo delle conoscenze tecnologiche
con il meccanismo politicizzato dei finanziamenti statali delle ricerche.
Questa area di controcultura non si è indeboli-ta ma si è
rafforzata con la crescita del debito pubblico, che si è dilatato
per alimenta-re l'inesauribile voracità dei collateralismi ai
partiti politici. Infatti molta parte del corri-spondente credito privato
à nelle mani di quella parte della società italiana che
è fon-data sulla controcultura. Questa cultura-contro si è
espressa con simboli e segni che si caratterizzano per la loro estrema
bruttezza. Questa è l'Italia dei palazzinari, che hanno costruito
baraccopoli di lusso con la pretesa di essere città, l'Italia
della strafot-tenza del brutto, che è stata l'espressione vera
di questa controciviltà. L'Italia del cat-tivo gusto orripilante,
che si è sviluppato insieme alla crescita economica, insieme
alle prime esportazioni di capitali all'estero, l'Italia del morboso
tifo calcistico, l'Italia delle prime liste civiche autonomiste è
l'Italia di questa controcultura. Ma questa è anche l'Italia
che ha finanziato l'altra Italia, quella progressista, quella colta,
quella che ha ben remunerati rappresentanti negli organismi internazionali,
quella che quin-di è internazionalista, sempre all'avanguardia,
quella snob, quella che oggi plaude "mani pulite".
La ragion d'essere della controcultura si è concentrata nel tessuto
produttivo, fatto da una miriade di piccole industrie, che sono sempre
state fuori legge sia perché nate da una ribellione iniziale,
sia perché nel frattempo le leggi erano state fatte contro di
loro. Alla fine questa controcultura è entrata nella politica
attiva inizialmente con i movimenti leghisti, caratterizzati dal rifiuto
di qualsiasi regola di razionalità, comprese anche le regole
della scienza e della tecnica. Poi la controcultura si è entusiasmata
di Forza Italia, un movimento che supera la fase della protesta per
arrivare a formula-re proposte per un nuovo modo di governare. Per una
stagione Berlusconi diventa il campione di questa nuova forza sociale,
che viene sempre più assumendo connotati politici. Intanto l'ala
ribelle di questa parte della società in fermento sfocia nell'irrazio-nalità
esponendosi quindi, per ingenuità, ad essere inconsapevolmente
sempre più strettamente al servizio del grande potere internazionale
del capitale tecnologico.
La non-arte della controcultura.
Anche nel gusto artistico la controcultura sembra avere un sussulto
di coraggio, libe-randosi dalla dittatura dell'arte astratta, del modernismo,
delle infinite mode e ten-denze, che per tutto il dopoguerra hanno preteso
di tradurre in immagini la mistica dell'antifascismo, la forza del pensiero
marxista e dialettico-materialista, della libertà progressista.
La dittatura degli Zevi si è allungata a coprire d'infamia il
post-moderno e a colpire inesorabilmente tutto ciò che avesse
il più vago sapore di realismo e di verità. Il colmo dell'assurdo
è che l'arte moderna occidentale, prevalentemente di si-nistra,
ha sempre ignorato l'arte realista sovietica, tutta concentrata sulla
celebrazio-ne dei fasti del socialismo reale agli occhi del popolo russo.
Ora si verifica che quel-l'arte russa in occidente ha un mercato mentre
gli epigoni dell'arte astratta occidenta-le non trovano più compratori.
La controcultura ora si affaccia alla ribalta con il co-raggio di dire
ciò che le piace, e afferma il principio che un quadro ha da
essere un quadro dove si capisca il significato delle forme che vi sono
dipinte senza dover es-sere educati da solenni critici a capire ciò che non ha alcun senso.
Come si è detto la classe che ha detenuto il potere economico
(ma non quello politi-co) non ha imposto una cultura in Italia, così
che la cultura dominante è stata di fatto, ed in molti casi anche
di diritto, creata dalla sinistra, una sinistra marxista, non orto-dossa
e non sempre allineata con i dettami stabiliti da Mosca, ma sostanzialmente
in linea con i grandi principi dell'internazionalismo comunista. Questa
creazione di cul-tura era basata più sulla distruzione di quella
precedente, più sulla mistica dell'antifa-scismo che non sulla
creazione di una autentica, reale, nuova cultura. Quindi si è formato un pensiero politico comunista egemone che ha tollerato temporaneamente
un certo sviluppo, limitato e frenato, dell'economia capitalistica in
Italia.
Il ruolo fondamentale delle industrie di Stato.
L'eredità di quelle industrie, che furono statalizzate al tempo
del fascismo, era stata ingigantita dopo la guerra sino a fare dello
Stato il principale imprenditore industriale. Il troppo rapido smantellamento
di questa struttura statale, di imprese ed istituti di credito, sta
determinando gravi scompensi, perché questa stessa struttura
contribui-va anche a sostenere la parte costituita dalle imprese private.
Poiché non esistono in Italia capitali privati in grado di comperare
la grande massa di enti pubblici da met-tere in vendita e non esistono
neppure le competenze dei privati per gestirli, si profila la svendita
degli stessi enti all'estero. La mancanza di grandi capitali è
la naturale conseguenza di quaranta anni e più di politica di
sinistra, contraria alla loro formazio-ne. Quindi la traiettoria politica
ed economica dell'Italia paradossalmente non è dis-simile da
quella percorsa dai paesi dell'Est dopo il crollo dell'Unione Sovietica.
Conseguenze spiacevoli della nostra debolezza tecnologica. Il ruolo
delle tan-genti è diventato essenziale.
Ma il vero dramma del sistema industriale italiano è nella sua
debolezza, o meglio nella sua inconsistenza tecnologica. Il nostro apparato
produttivo e le nostre struttu-re di vendita sono state improvvisamente
private della protezione che era garantita da una rete di rapporti compiacenti
e tangentizi all'interno ed all'esterno del paese. In questo modo il
confronto con industrie e poteri finanziari stranieri si è risolto
poi ine-vitabilmente a nostro totale sfavore. E non poteva essere diversamente
poiché dopo il furore giustizialista di tangentopoli, che ha
distrutto l'immagine di centinaia di opera-tori economici e delle loro
ditte, per ricostruire la credibilità commerciale dei nostri
prodotti avremmo dovuto rilanciare, gettando nella competizione più
qualità e più tecnologia. In realtà abbiamo potuto
solo giocare al ribasso, svendendo i nostri pro-dotti, svalutando la
Lira e riducendo i guadagni sino ad accumulare debiti.
Gli ultimi governi in Italia non hanno avuta alcuna cognizione degli
elementi nuovi che giocavano a nostro danno. Tolte le tangenti ed insieme
gli appoggi (o le benevo-lenze) internazionali, che esistevano grazie
alla nostra collocazione sulla frontiera dei due blocchi contrapposti,
sarebbe stato necessario ripristinare una sorta di frontiera doganale
temporanea, una protezione che ci consentisse almeno un sommario ag-giornamento
tecnologico ed un ripristino, in senso tecnocratico, dei quadri dirigenti
distrutti dall'epurazione di tangentopoli, se si voleva realmente mutare
la nostra etica commerciale.
Un recente studio (anno 1997) della School of Government dell'Università
di Harvard ha avuto per oggetto i risultati della Foreign Corrupt Pratices
Act, la legge del Con-gresso USA, approvata nel 1977, che colpisce la
corruzione estera. Questa legge venne varata sotto la spinta emotiva
del Watergate (Mani pulite negli USA). Essa prevede forti multe e l'arresto
per i manager di aziende americane che abbiano elar-gito tangenti all'estero.
La legge venne preceduta da un condono per le aziende che avessero confessato
attività illecite pregresse. Ben 400 aziende ammisero di aver
pagato tangenti. La legge è permissiva verso le tangenti dette
"grease payments", pagameti oleosi, dati a funzionari di rango
inferiore per accelerare il cammino delle pratiche. Il risultato dello
studio è sconfortante: "Questa iniziativa unilaterale ameri-cana
ha indebolito la posizione competitiva delle imprese statunitensi senza
d'altra parte ridurre il fenomeno della corruzione nelle transazioni
commerciali internaziona-li". Infatti dopo il 1977 gli investimenti
americani nei paesi ad alta corruzione sono crollati, mentre sono cresciuti
nei paesi a basso tenore di illegalità. Gli altri paesi in-dustrializzati
si sono affrettati a prendere il posto lasciato libero dagli USA. La
con-clusione si riassume in poche righe:
"Questo studio dimostra come la legge americana sia parzialmente
riuscita a ridurre l'elargizione di tangenti da parte di aziende statunitensi,
ma abbia totalmente fallito nell'in- tento, che si era proposta, di
ridurre il livello totale di corruzione nel mondo". E si deve osservare
che, a differenza dell'Italia, gli USA potevano contare su un ele-vato
livello tecnologico dei loro prodotti (da IL FOGLIO del 24 sett. 1996).
Invece i governi Amato e Ciampi sembra abbiano voluto prendere l'occasione
per danneggia-re, oltre alle industrie dell'IRI, proprio le piccole
e le medie aziende, il frutto di quella civilta' subalterna che, a dispetto
di tutto, aveva costruito il reale tessuto produttivo del paese.
La controcultura, espressione di quella civiltà subalterna (saltuariamente
e malde-stramente sostenuta nel passato dalla DC), sfuggita alla totalizzante
e perniciosa cul-tura egemone di sinistra, ora viene erosa e distrutta
per essere finalmente sostituita con il nulla internazionale, inter-razziale
ed ecumenico, con lo sfacelo di ogni credo politico e religioso, preparando
l'ingresso dell'Italia nel novero dei paesi arretrati, quei paesi che
vivono di elemosine alimentari e che lavorano mal pagati per il grande
ca-pitale internazionale.
L'evoluzione verso questa nostra nuova collocazione tra le nazioni procede
grazie al-la distruzione della nostra industria ad alta tecnologia,
l'unico punto di forza nella guerra economica di oggi e di domani. La
perdita di ogni autonomia progettuale e di innovazione ci trascina in
una sempre crescente dipendenza da i grandi produttori e gestori dell'alta
tecnologia, nella cui sfera di influenza sono già caduti i paesi
che so-no stati parte dell'impero spagnolo. Persino chi guarda la politica
con la sola preoc-cupazione di vedersi garantita la pensione per la
vecchiaia dovrebbe riflettere sull'in-fluenza che il livello tecnologico
delle industrie italiane esercita alla fine anche sui fondi per le pensioni.
In questo futuro infatti non c'è posto per pensioni alte riferite
a-gli stipendi che erano possibili quando in Italia operavano industrie
efficienti ed auto-nome, grazie ad una tecnologia ancora competitiva.
Tutto progressivamente si dovrà adeguare alla nuova realtà,
alla nuova ripartizione internazionale del lavoro e della ricchezza.
4) Un caso interessante: l'assorbimento della Germania Est nella nuova
grande Germania europea.
In netto contrasto con le opinioni correnti in Italia, abbiamo cercato
di convincere il lettore che il possesso della tecnologia e la capacità
di utilizzarla, incorporandola nel capitale di rischio, costituiscono
il principale punto di forza degli attuali imperi mon-diali. Un aspetto
non secondario della presenza di questi imperi è dato dalla cura
con cui essi si mimetizzano e celano abilmente le vere cause degli enormi
danni morali, sociali ed ambientali provocati dal loro agire.
Per fornire al lettore un esempio concreto e recente esaminiamo un caso
in cui la ricerca tecnologica è stata completamente azzerata
per ottenere la totale sostituzio-ne della precedente cultura, condizione
essenziale per distruggere il precedente po-tere politico. Questo esempio,
per analogia, ci fornirà almeno il sospetto che si pos-sa dare
un'altra interpretazione circa le cause dei nostri guai.
Il caso che esaminiamo è quello della Germania Est dopo il suo
assorbimento nella Germania Occidentale. Pur trattandosi di due realtà
diverse, che hanno in comune solo gli interventi statali, attuati peraltro
con diverse metodologie, il confronto fra Italia e Germania Est fornisce
indicazioni simili circa il significato della politica tecnologica nella
costruzione (o distruzione) di un sistema economico e di tutta una cultura.
Si deve ricordare che l'intero sistema formato dai paesi comunisti dell'Europa
Orientale, Russia compresa, nella prima fase di industrializzazione
ebbe una crescita superiore a quella dei paesi occidentali ad economia
capitalistica, anche se all'Est il benessere del popolo è stato
sacrificato alle priorità dettate dallo sviluppo della grande
industria.
Nel settore spaziale l'Unione Sovietica per molti anni ha preceduto
gli Stati Uniti. Solo con l'apertura di un nuovo fronte di competizione:
quello delle "guerre stellari" e dello "scudo spaziale",
l'Unione Sovietica ha dovuto rinunciare alla gara con il mondo Oc-cidentale.
Questo è una conferma del fatto che il sistema economico comunista
non ha raggiunto l'obiettivo di compiere il passaggio dall'industria
pesante all'industria fine con alta tecnologia. La stessa cosa si verificava
nella più "pacifica" guerra commer-ciale, nella quale
il blocco comunista perdeva ogni possibilità di competere con
la crescente complessificazione della produzione mondiale di beni sempre
più perfe-zionati e ricchi di innovazione.
Cosa avvenne quando la Germania si riunificò.
Dello sviluppo industriale del blocco comunista la Germania Orientale è stata il gran-de laboratorio tecnologico per le applicazioni
militari e per quelle civili. Non è facile oggi trovare una ragionevole
spiegazione al fatto che le regioni dell'ex Germania Est siano improvvisamente
crollate a livello di paese povero, bisognoso di una totale ri-costruzione.
E' chiaro che la foga di ristrutturare industrie e servizi dell'Est
nasconde anche la volontà politica dei tedeschi occidentali di
estirpare ogni radice del potere e dell'ideologia comunista che fossero
rimaste annidate nelle più piccole pieghe del si-stema.
Oggi si propende a credere che la causa prima del crollo della formula
comunista sia stata la sua incapacità di passare dalla quantità
alla qualità, qualità che è stata impo-sta dalla
molto accresciuta sofisticazione della produzione industriale in tutto
il mon-do. E poiché la formula comunista si basava su forme di
lavoro più o meno coatto, anche se garantito per tutti, è
proprio il lavoro coatto ad entrare in conflitto con una produzione
di alta qualità, come storicamente si è sempre verificato.
5) Gli aspetti "tecnologici" della riunificazione tedesca.
La riunificazione delle due Germanie è stata in realtà
l'annessione di un intero stato alla Germania occidentale. Le strutture
di ricerca applicata della Germania dell'Est sono state ridimensionate
progressivamente, sino a che gli Istituti di ricerca sono sta-ti completamente
svuotati del loro personale scientifico (4). Nella Germania Est esi-stevano
57 Istituti di ricerca dell'Accademia delle Scienze. Questi Istituti
occupava-no 24000 persone. Le Università svolgevano poca ricerca
ed erano prevalentemente impegnate nella didattica. Nell'ottobre 1990,
dopo la riunificazione, venne varato il Programma di Rinnovamento dell'Istruzione
Universitaria che restituì la funzione di ricerca alle Università.
Negli Istituti di ricerca molti ingegneri e tecnici erano impe-gnati
nell'autocostruzione degli impianti ed apparecchiature necessarie per
l'attività di ricerca all'interno degli Istituti. Le stesse apparecchiature,
anche se esistevano sul mercato, venivano egualmente costruite e persino
vendute in Occidente, poiché non era conveniente comperarle a
causa del cambio svantaggioso. Questa produzione era preziosa in un'economia
autarchica come quella della Germania Est prima del 1989, ma dopo sarebbe
stata del tutto inutile ed infatti quegli ingegneri furono i primi ad
essere licenziati. Eppure non si vede perché la ricerca non potrebbe
essere, an-che nei paesi capitalisti, un pò più autarchica
e meno legata alle speculazioni delle grandi case costruttrici di apparecchi
scientifici. Alla fine poi vennero licenziati anche tutti gli altri
ricercatori. Si è proceduto quindi a compiere una cernita sulla
base delle competenze tecniche e dei rapporti intercorsi con la Stasi
(la polizia del regime co-munista). Quando si trovava un contatto, appena
oltre un certo limite, la persona ve-niva licenziata senza appello.
E' stata realizzata una rigida epurazione di natura poli-tica per la
quale sarebbe opportuno stabilire se sia compatibile, o meno, con le
leggi europee.
Sino agli inizi del 1994 gli Istituti di ricerca dell'ex Germania Est
avevano ancora 7200 dipendenti, mentre altri 1900 sarebbero dovuti entrare
in Istituti ed Università della Germania Ovest. Ma le cose non
sono andate lisce perché le istituzioni occi-dentali hanno rifiutato
di dare a costoro i contratti di ricerca, peraltro già finanziati
dal programma di reintegrazione (Wissenschaftler-Integrationspro-gramm)
con un'asse-gnazione di 400 milioni di DM. Del totale di 1920 candidati
solo 85 riuscirono ad ave-re un contratto. Prima del crollo del muro
di Berlino nella Germania Est circa 86000 persone erano addette alla
ricerca nelle industrie. Nel 1991 il numero era sceso a 34600 e nel
1994 non superava 16000. La diminuzione è addebitata alla crisi
che colpisce tutte le industrie dei Lander che appartenevano alla Germania
Est. La di-struzione delle istituzioni di ricerca della Germania Est
è stata attuata all'insegna dei principi del liberalismo e dell'efficienza
capitalistica. Ma questi Istituti avevano fornito la ricerca necessaria
per l'industria dell'Est comunista. Il programma spaziale sovieti-co
non sarebbe stato possibile senza il contributo della ricerca e delle
apparecchiatu-re provenienti dalla Germania Est. Un apparato scientifico
e tecnologico, che aveva meritato il rispetto dell'Occidente impaurito,
è stato liquidato dai burocrati della Ger-mania Occidentale apparentemente
per inefficienza e per il fatto di non essere in grado di inserirsi
nella logica del mercato, in realtà perché puzzavano ancora
di co-munismo! Ora questa è una scelta politica rispettabile,
e personalmente non potrei certamente difendere l'indifendibile diritto
alla sopravvivenza dell'ideologia comunista, che ha creato nel mondo
soprattutto genocidi e distruzione di civiltà. Ma se la Ger-mania
ha compiuto questa scelta sarebbe dovuta essere una scelta chiara e
senza equivoci. In Germania si è attuata una grande epurazione
contro ciò che del comu-nismo poteva essere sopravissuto nei
Lander dell'Est. E questa epurazione ha un costo che in nessun modo
deve essere pagato dagli altri paesi d'Europa. Ed infine esiste un aspetto
umano e giuridico. Non è lecito condannare tecnici e scienziati
di valore come fossero degli ignoranti fannulloni, mentre in realtà non si vuole rivelare che questi vengono condannati solo a causa dei
loro legami con il precedente regi-me. Il Governo tedesco dica chiaro
che ha compiuto un'epurazione di natura politica.
L'epurazione politica e culturale nell'ex Rdt.
Invece il governo tedesco, che dovrebbe essere un buon amministratore
dei soldi dei suoi contribuenti, si affrettò a dichiarare, già
nel 1994, di aver quasi terminato il "risa-namento" dell'ex
Rdt, impiegando somme ingenti. Per attuare questo risanamento venne
chiusa ogni attività di ricerca che veniva svolta nell'ex Rdt,
con il risultato di averne distrutta totalmente l'indipendenza, dimenticando
che la Germania dovrebbe essere uno stato federale. Ma in realtà
il "risanamento" è stato la ricostruzione dalle fondamenta
l'ex Rdt, a cominciare dalle strade (7500 chilometri), dalle ferrovie
(3000 chilometri), dal parco macchine (da 3,9 milioni di prima a 6,7
milioni tre anni dopo), dalle città, la cui urbanistica venne
completamente stravolta. In realtà sembra che ci sia stata la
necessità di far sparire le tracce di una civiltà che,
bene o male, per oltre quarant'anni è stata alternativa a quella
consumistica occidentale.
Lo sviluppo della ex Rdt venne sostenuto da una massiccia iniezione
di denaro pro-veniente dalla Germania Ovest. Per averne un'idea è
sufficiente esaminare il deficit di bilancio dello Stato, un deficit
che è passato dall'1% del Pil nel 1989 (33 milardi di marchi)
al 4,5% del Pil (146 milardi di marchi) per il 1994. In corrispondenza
il debito pubblico tdesco è passato da 924 miliardi di marchi
nel 1989 (41% del Pil) ai 1690 miliardi nel 1994 (52% del Pil), sino
a circa 2000 miliardi di marchi (62% del Pil) nel 1995. Al denaro dello
Stato si è aggiunto quello dei privati. Dal 1991 a tutto il 1993
si sarebbero avuti investimenti superiori a 200 miliardi di marchi.
Pur con un tasso di disoccupazione ancora al 16 per cento, le regioni
della Germania Est avrebbero una spettacolare crescita economica, 8
per cento all'anno. Quindi si realizza uno sviluppo sostenuto dal capitale
tecnologico con una dipendenza totale dalle conoscenze tec-niche di
chi opera gli investimenti industriali mentre lo Stato vi mette, di
suo, le infra-strutture.
Portato avanti in Germania in tempi molto brevi, questo è lo
stesso modello di colo-nizzazione attuato in Italia dopo gli anni sessanta,
cominciando dal Mezzogiorno sino alla Lombardia.
Il confronto con l'Italia.
Anche in Italia venne attuata una distruzione totale della ricerca applicata,
in modo che la nostra industria perdesse ogni possibilità di
indipendenza ed autonomia. An-che in Italia è stato compiuto
uno sviluppo finanziato dalla crescita del debito pubbli-co e fondato
sulla produzione di beni di largo consumo, sacrificando tutto il resto:
cul-tura, ambiente naturale, tradizione e indipendenza politica ed economica.
Alla fine, in realtà, nell'ex Rdt si riparte da zero, ed in ciò
si realizza una somiglianza con l'Italia che, per un'altra strada, egualmente
sta arrivando al livello zero delle sue capacità di trasferire
innovazione nei processi produttivi. A sua volta lo sviluppo tec-nologico
della Germania riunificata non è privo di aspetti critici che
non garantiscono la crescita industriale di tutti i settori produttivi.
L'ambasciatore Konrad Seitz (5) ha richiamata l'attenzione sulla poca
competitività di certi rami dell'industria tedesca. La distruzione
delle conoscenze tecnologiche della ex Rdt potrebbe quindi rivelarsi
per tutta la Germania un fatto disastroso venendo a mancare una fonte
alternativa di innovazioni. Seitz dice:
"L'industria della Germania occidentale sta attraversando la crisi
più profonda della sua storia. Recessione ciclica, dicono gli
economisti; la Germania ha perso competi-tività, aggiungono gli
imprenditori: noi ci permettiamo i salari più alti e gli orari
di lavo-ro più brevi, i tempi più lunghi per l'autorizzazione
di nuovi impianti e i tempi di utiliz-zo dei macchinari più brevi...Alla
fine del XX secolo, il benessere tedesco continua a venir sorretto dalle
industrie nate durante la prima rivoluzione industriale che abbrac-cia
i duecento anni dal 1780 al 1980. Dagli anni 80 è però
in pieno corso una secon-da rivoluzione industriale a cui la Germania
partecipa solo insufficientemente".
Già nel 1983 Bruce Nussbaum aveva diagnosticata la malattia del
sistema tecnologi-co-industriale tedesco (6). Egli aveva scritto:
<Forse i Tedeschi ancora non lo sanno, ma la loro base industriale
sta sgretolandosi. Durante l'ultimo secolo la Germania ha costruito
le industrie meccaniche, chimiche, elettromeccaniche, automobilistiche
più progredite. Oggi però è una nazione che non
riesce a passare dalla meccanica all'elettronica, dalla chimica alla
biotecnica. Conti-nua a fabbricare i prodotti migliori del XX secolo,
ma i suoi sforzi per fare i prodotti del XXI secolo sono deboli e i
suoi tentativi di venderli sui mercati internazionali ven-gono respinti
senza fatica dai concorrenti americani e giapponesi."
Quindi le conseguenze di una errata politica tecnologica potrebbero
rovinare il siste-ma industriale di tutta la Germania, compresa l'ormai
assimilata ex Rdt.
6) Esiti politici, sociali ed economici della politica tecnologica in
Ita-lia.
In Italia si era creata una struttura di ricerca largamente sostenuta
dallo Stato, quin-di non molto diversa da quella della Germania Est.
Forse un poco meno efficiente, ma non totalmente inutile. La differenza è che a compiere l'opera salvifica in Italia non è una
nuova classe dirigente, che non esiste, ma i grandi complessi industriali
finanziari internazionali, che in realtà tutto hanno a cuore
fuorché la nostra rieduca-zione a fare ricerca come si usa nei
paesi capitalisti (8).
Così la Nuova Pignone, già azienda di punta del gruppo
ENI, viene "comperata" dalla General Electric e svuotata della
sua innovazione, così la nostra industria farmaceu-tica viene
privata dei laboratori di ricerca per divenire manifattura o semplice
confe-zionatrice di prodotti farmaceutici forniti da altre filiali o
dalle case madri all'estero. Ma il quadro di oggi e le previsioni per
il prossimo futuro dipendono da un insieme di cause che non sono di
facile identificazione, e che certamente si collocano tempo-ralmente
nel periodo che va dalla fine degli anni sessanta agli inizi degli anni
ottanta. Che cosa abbia determinato in quel periodo una sorta di mutazione
genetica nel no-stro paese è quasi impossibile sapere. Quello
che è certo è che, da un esame storico fatto oggi senza
pregiudizi ideologici, un cambiamento profondo, che si potrebbe appunto
definire mutazione genetica del pensiero politico, si è realmente
verificato allora in Italia. Ma diversamente dalla vicenda dei Lander
tedeschi dell'Est, dei quali conosciamo perfettamente le statistiche
complete ed attendibili, per l'Italia tutto è più sfumato,
e non esiste dato che non sia avvolto dal dubbio e quindi opinabile.
La visione premonitrice di Pasolini, con qualche errore storico.
Tanto vale andarci a leggere ciò che di quel periodo scrisse
un uomo intelligente e del tutto digiuno di tecnologia come Pasolini
(7).
<Nei primi anni sessanta, a causa dell'inquinamento dell'aria, e,
soprattutto, in cam-pagna, a causa dell'inquinamento dell'acqua (gli
azzurri fiumi e le rogge trasparenti) sono cominciate a scomparire le
lucciole. Il fenomeno è stato fulminante e folgoran-te. Dopo
pochi anni le lucciole non c'erano più
Nessuno poteva sospettare la realtà storica che sarebbe stato
l'immediato futuro: né identificare quello che allora si chiamava
"benessere" con lo "sviluppo" che avrebbe dovuto
realizzare in Italia per la prima volta pienamente il "genocidio" di cui nel Mani-festo parlava Marx.>
Lo sviluppo, di cui parla Pasolini, è avvenuto dopo il '65, ed
è stato causato princi-palmente dalla distruzione della capacità
di fare tecnologia in modo autonomo, met-tendo invece la nostra forza
lavoro al servizio del capitale tecnologico internazionale, per ottenere
in breve tempo un benessere diffuso che, nei disegni della DC avrebbe
dovuto, come in realtà in parte avvenne, togliere forza alla
carica rivoluzionaria del comunismo. Ma questo benessere è stato
ottenuto sacrificando tutto il resto, dalla cultura all'ambiente naturale,
sino alla perdita di ogni autonomia politica. A partire dal decennio
seguente, il benessere, che tardava a svilupparsi, venne aiutato con
la crescita del debito pubblico con cui pensammo di importare tecnologia.
Quindi lo svi-luppo divenne rapido ed infine disastroso, ma fu l'unico
possibile, dopo che una serie di cause aveva messo fuori gioco la nostra
capacità di produrre tecnologia.
L'analisi marxista, internazionalista ed ecumenica non distingue tra
la tecnologia pro-pria e quella esterna e neppure ha mai potuto comprendere
il ruolo del capitale che usa l'arma della tecnologia. Ha sempre ripudiato
la proudhoniana piccola industria! Ecco come Pasolini vedeva l'Italia
prima che si sviluppasse la dittatura del capitale tecnologico:
<La continuità tra fascismo fascista e fascismo democristiano
è completa e assoluta. Taccio su ciò, che a questo proposito,
si diceva anche allora, magari appunto nel "Politecnico":
la mancata epurazione, la continuità dei codici, la violenza
poliziesca, il disprezzo per la Costituzione.>
Se queste sono le accuse che si possono fare al regime democristiano,
sino agli anni sessanta, esse in realtà sono altrettanti riconoscimenti
di meriti. L'epurazione è stata la cosa più autolesionista
che gli italiani abbiano combinato. Con l'epurazione venne eliminata
buona parte della classe dirigente delle industrie e delle banche perché
compromessa, o sospetta di compromissioni con il vecchio regime fascista.
Ma si trattava prevalentemente di persone con un'elevata preparazione
tecnica ed un grande attaccamento alla patria ed allo Stato. Coloro
che furono chiamati a sostituirli risultarono essere spesso tecnicamente
incapaci e legati solo al partito che li aveva fatti nominare, privi
di senso dello Stato e dotati di un sano disprezzo verso la patria.
Per onore della verità è doveroso ricordare che, oltre
all'epurazione, a guerra finita, si scatenò la vendetta contro
i fascisti, contro i loro familiari, contro alcuni uomini di cultura
del vecchio regime ed infine contro i nemici personali che con il regime
non avevano avuto nulla a che fare. Secondo diverse stime si ebbero
dai 40000 ai 70000 morti ammazzati concentrati prevalentemente nelle
regioni rosse. I tribunali regolari fecero eseguire oltre un centinaio
di condanne a morte, mentre durante gli anni del regime le sentenze
di morte eseguite erano state sei. L'effetto fu quello di aver can-cellato
in molte provincie del centro-nord un'intera classe dirigente e di aver
creato uno stabile e plebiscitario consenso alle sinistre. Ma le sinistre
vedevano la nazione come un ostacolo alle loro aspettative messianiche,
essendo in attesa della grande rivoluzione comunista di tutti i popoli
della terra. Le sinistre si dedicarono a consolida-re la loro forza
a livello locale con governi regionali al limite della secessione. Se-guendo
questa politica le sinistre si autoesclusero e vennero poi estromesse
dalla formazione della nuova classe politica del governo nazionale,
classe politica nella quale presto inevitabilmente prevalsero gli uomini
del sud, poco o nulla ostacolati dai rappresentanti di un centro-nord
operoso, costruttivo, "progressista", internazionali-sta,
ma anche rissoso ed alla fine inconcludente ed incapace di governarsi.
Così la seconda guerra mondiale ebbe il risultato di modificare
radicalmente la com-posizione della classe politica italiana a causa
principalmente della deriva a sinistra di molte regioni, con tutte le
conseguenze che si ebbero poi sulla politica italiana. Quanto poi alla
continuità dei codici si deve riconoscere che, ancora oggi, molti
non nostalgici del vecchio regime rimpiangono il codice Rocco. Le mostruosità
giuridiche, messe in piedi dal sistema politico fondato sul tacito accordo
tra la DC ed il PCI, hanno delegato alla magistratura tutti i provvedimenti
impopolari e fatto della giustizia italiana un insieme pieno di assurdità
e di illegalità codificate, basate sull'ingiustificata insindacabilità dell'operato dei magistrati italiani, i quali, a causa dell'esorbitante
pote-re di cui dispongono, sono destinati, presto o tardi, a distruggersi
tra loro. Quanto alla Costituzione si vede bene oggi quanto sia inattuabile
ed insieme immodificabile.
<In tale universo (quello dell'Italia nell'immediato dopoguerra)
i "valori" che contava-no erano gli stessi che per il fascismo:
la Chiesa, la patria, la famiglia, l'obbedienza, la disciplina, l'ordine,
il risparmio, la moralità. Tali "valori" (come del
resto durante il fascismo) erano "anche reali": appartenevano
cioè alle culture particolari e concrete che costituivano l'Italia
arcaicamente agricola e paleoindustriale.>
Quindi nella cultura di sinistra non ci dovrebbe essere posto (secondo
Pasolini) per ciò che il fascismo ha sfiorato. Anche se si tratta
di andare verso l'autodistruzione, per la sinistra si dovrebbe negare
tutto ciò che il fascismo ha elevato a valore di rife-rimento,
essendo questo sufficiente a giustificare che si debba eternamente fare
l'opposto di ciò che il fascismo aveva scelto.
L'intolleranza radicale dei marxisti.
A tanta intolleranza e a tanto fanatismo condusse il credo marxista,
radicato in Ita-lia con la forza di una religione atea. Il pensiero
di sinistra, diventato egemone della cultura, diventato l'anima pensante
ufficiale, ha finito per ricorrere al ripudio della ra-gione pur di
distruggere il sistema, nella speranza che risultasse alla fine distrutta
la stabilità del potere politico. E nel ripudio della ragione,
della razionalità e della stes-sa ragionevolezza, il comunismo
ha finito con lo sposare tutte le strade più aberranti che si
presentavano. Ed in questo negare la ragione ha persino troncato le
radici il-luministiche del peniero di sinistra. Quindi è stato
tagliato anche il legame con la scienza applicata, perché non
abbastanza popolare in Italia, non abbastanza bene accetta dalla gente,
ed ha finito per seguire disgraziatamente la logica della soluzio-ne
facile, quella della sottomissione al potere del capitalismo tecnologico
interna-zionale.
Il comunismo italiano ha finito per favorire il disegno della DC, che
all'opposto, attra-verso il benessere ed una certa dose di rilassatezza
dei costuni, sperava di sciogliere la forza rivoluzionaria comunista.
Con questa scelta la sinistra si è alleata con il pote-re democristiano,
il potere politico che diventava unico, compartecipato e indifferen-ziato,
che non accettava di essere disturbato a causa di scelte difficili,
che esigeva il primato assoluto di una politica definita come umanistica
ed umana, ma in realtà tri-bale, preilluminista, supporto di
un potere che non vuole certo rompersi il capo con i problemi di strategia
industriale collegata alla scomoda dinamica del progresso tec-nologico.
La tanto temuta ventata rivoluzionaria, che venne dopo il '68, sembra
sia servita da alibi per la distruzione dell'innovazione e dell'autonomia
dell'industria italiana, distru-zione già iniziata per opera
del capitale internazionale. Sulla rivista <Dramma> del marzo
'74, Pasolini pubblicò un articolo molto polemico contro gli
intellettuali del do-po '68. Pasolini mostra come la realtà politica
ed industriale si sia venuta creando nella disattenzione del pensiero
politico di sinistra. Pur non avendo forse una completa cognizione delle
verità che affermava, Pasolini seppe definire lucidamente la
natura del nuovo corso.
<C'è stato un momento, pochi anni fa, in cui pareva ogni giorno
che la Rivoluzione sarebbe scoppiata l'indomani. Insieme ai giovani
- dal 1968 in poi - a credere nella rivoluzione imminente ....c'erano
anche degli intellettuali non più giovani ...In essi questa certezza
di una "Rivoluzione dell'indomani" non trova le giustificazioni
che trova nei giovani: essi si sono resi colpevoli di aver mancato al
primo dovere di un intellettuale: quello di esercitare prima di tutto
...un esame critico dei fatti. E se, per la verità, si sono fatte
in quei giorni orge di diagnosi critiche, ciò che mancava era
la reale volontà della critica. ...Senza senso comune e concretezza
la razionalità è fa-natismo. E infatti, su quelle mappe
intorno a cui si affollavano gli strateghi della guer-riglia di oggi
e della rivoluzione del giorno dopo, l'idea del "dovere" dell'intervento
politico degli intellettauli non veniva fondata sulla necessità e sulla ragione, ma sul ricatto e sul partito preso.
Oggi è chiaro che tutto ciò era prodotto di disperazione
e di inconscio sentimento di impotenza. Nel momento in cui si delineava
in Europa una nuova forma di civiltà e un lungo futuro "sviluppo"
programmato dal Capitale - che realizzava così una propria rivoluzione
interna: la rivoluzione della Scienza Applicata, pari per importanza
alla Prima Seminagione, su cui si è fondata la millenaria civiltà
contadina - si è sentito che ogni speranza di Rivoluzione operaia
stava andando perduta. ... Non solo, ma ormai era chiara non tanto l'impossibilità
di una dialettica, quanto addirittura l'impos-sibilità di una
commensurabilità, tra capitalismo tecnologico e marxismo umanistico.
Da ciò l'urlo che è echeggiato in tutta l'Europa, e in
cui predominava, su ogni altra, la parola Marxismo. Non si voleva -
giustamente - accettare l'inaccettabile. I giovani hanno vissuto disperatamente
i giorni di questo lungo urlo, che era una specie di e-sorcismo e di
addio alle speranze marxiste: gli intellettuali maturi che erano con
loro hanno invece commesso, ripeto, un errore politico.>
Le parole sono alte, il contenuto è profetico, ma gli errori
storici sono tanti e gravi. La Prima Seminagione, a cui Pasolini accenna
è forse quella che avvenne a partire dal 6000 avanti Cristo.
La civiltà contadina che Pasolini aveva sempre in mente era nata
invece a cavallo del primo millennio dopo Cristo. La rivoluzione delle
tecnologie a-grarie venne compiuta dagli ordini religiosi, attorno al
mille. Nei monasteri venne compiuta la sperimentazione che avrebbe trasformato
radicalmente le tecniche di coltivazione e di trattamento dei prodotti
agricoli. La Chiesa affermò il suo predomi-nio avvalendosi non
solo di prediche, ma di una grande rivoluzione tecnologica nel-l'agricoltura
e nella medicina; in entrambi i campi mantenne di fatto il monopolio
sino alla vigilia della rivoluzione francese. Invece la rivoluzione
della Scienza Applicata è sfuggita di mano ai comunisti per essere
monopolizzata dal Capitale. L'errore fu di non aver inteso che il marxismo
si fondava sull'avvento del regno delle macchine al-meno quanto il capitalismo.
Il marxismo che appare dagli scritti di Marx non si ab-bandona ad illusioni
ma mira ad attuare per primo ed in esclusiva la grande Rivolu-zione
della Scienza Applicata. Ma i comunisti non hanno capito. I giovani
poi non seppero fare altro che urlare ed esercitarsi nella guerriglia,
circondata oggi dal so-spetto di essere stata per un certo periodo protetta
allo scopo di ingenerare nell'opi-nione pubblica un forte rifiuto. I
giovani non seppero certo seguire la strada dell'asti-nenza tecnologica
per limitare il potere del grande Capitale Tecnologico internazio-nale.
Strada che invece Gandhi fece seguire con successo ai popoli dell'India,
che rifiutarono i prodotti, allora ad alta tecnologia, dell'industria
inglese. I giovani dimenti-carono di leggere tutto Marx ed in particolare
trascurarono il capitolo delle macchine e non si accorsero che il progetto
marxiano, pur contemplando il ruolo fondamentale delle macchine, aveva
a sua volta dimenticato i costruttori della scienza e della tec-nologia,
i costruttori delle macchine. Costoro, nei paesi europei occidentali,
furono monopolizzati dal capitale che incorporò le loro scoperte,
pagando ben miseramente il plusvalore del loro lavoro. I lavoratori
della Scienza e della Tecnologia non furono mai protetti dalle potentissime
organizzazioni sindacali comuniste, essi furono ab-bandonati allo sfruttamento
del Capitale, che in tal modo si rafforzò. Oggi per colmo di
sventura abbiamo sul collo, nei punti nevralgici, molti eredi di quella
rivoluzione mancata. Arrivati tutti insieme, per ragioni anagrafiche,
al momento di cominciare a lavorare, riscoprendo vecchie amicizie e
collateralismi inossidabili, questi, che, come eroi immaginari di un
fumetto, avevano attraversato da protagonisti i furibondi anni della
rivolta anticapitalista, tutti insieme si accorgevano che la struttura
capitalistica della società, in attesa della sua definitiva sconfitta,
poteva offrire non pochi agi e vantaggi materiali. Del capitalismo questi
eroi mancati, personaggi privi di competen-ze professionali, frustrati
e prepotenti, hanno scelto gli aspetti peggiori.
La carriera dei cultori della rivoluzione dell'indomani.
Gli eredi della rivoluzione mancata, abbandonati gli ideali della gioventù,
non hanno avuto grande interesse per la faticosa produzione industriale.
Molti di essi hanno da-to la loro preferenza alla speculazione finanziaria,
che è priva di riferimenti alla pro-duzione di qualche cosa di
reale, essendo rivolta a produrre denaro dal denaro, strumento di ricatto
per sfruttare chi ancora si ostina a lavorare arrabattandosi con una
tecnologia rubacchiata.
Alla fine, come conclusione di tanta cercata disillusione, non può
non nascere quella volontà di "suicidio differito",
che si manifesta come causa inconscia dell'ostinato ri-fiuto di procreare,
origine dell'attuale contrazione delle nascite, contrazione che è
ar-rivata a dare un numero di nati che neppure raggiunge la metà
del necessario per avere la crescita zero della popolazione. Ma la nuova
civiltà appare basata su ben al-tre crescite, come la crescita
degli automi, che forniscono forza lavoro ad un costo inferiore al costo
del lavoro offerto dagli operai e dagli impiegati, senza la seccatura
delle loro rivendicazioni sindacali. Si verifica, come fatto ricorrente
nella storia mo-derna, una progressiva espulsione della forza lavoro,
ora non pii compensata da nuove assunzioni. L'espulsione comincia oggi
dalla manodopera poco qualificata, scacciata dall'avvento di nuovi automi
intelligenti. Da qui sembra derivare il rifiuto, espresso apertamente
nel 1992 da Giugni, allora ministro socialista del lavoro, di for-nire
sostegno alle piccole imprese perché, secondo la sua opinione,
gli aiuti si sareb-bero riversati in aumento dell'automazione con conseguente
riduzione del numero dei lavoratori occupati. Questa trasformazione
riguarda i processi produttivi che pro-ducono beni sempre piu' standardizzati,
contenuti in un ventaglio merceologico sem-pre più ristretto.
La tendenza è quindi verso beni tutti eguali in tutto il mondo
e ver-so un sempre minor numero di addetti per la loro produzione e
vendita. Se non si in-serisce innovazione nei beni prodotti il sistema
industriale si impoverisce ed alla fine collassa, poiché l'offerta
di beni, con qualità e costi decrescenti, trova sempre meno acquirenti
a causa della progresssiva riduzione delle persone dotate di reddito
(8,9). Pasolini non si accorse neppure che anche il marxismo, là
dove si realizzava, non era umanistico ma cercava di diventare tecnologico,
dopo essere stato proletario e stakanovista. L'assenza di una realistica,
e non retorica, concezione della tecnologia e del suo legame con la
dinamica industriale ed economica è equamente distribuita nel
pensiero politico italiano. Anche in un convegno di illustri sconfitti
alle elezioni po-litiche del 1994 si è sentito dire che la crescita
tecnologica non deve essere mitizzata poiché ha dimostrato di
non essere neppure in grado di realizzare la crescita dell'oc-cupazione.
Ovviamente questa affermazione viene espressa dimenticando il fatto
certo ed incontrovertibile che la stagnazione dell'innovazione tecnologica
porta sicu-ramente e necessariamente ad una diminuzione progressiva
dell'occupazione. Ov-viamente sarebbe stato troppo chiedere a quei signori
se il concetto si voleva riferito alla tecnologia dei sistemi produttivi
oppure all'innovazione nei beni prodotti, essendo diverso ed opposto
nei due casi l'impatto sull'occupazione.
Le amare conclusioni.
Volendo, al termine di questa storia, darne al lettore una sintesi,
sarà necessario tor-nare agli anni '30, quando il governo italiano
fu costretto a varare una reale politica tecnologica per resistere alle
sanzioni che la Società delle Nazioni (diventata ONU dopo la
guerra) ci inflisse per punirci delle nostre velleità espansioniste
in Africa. Si trattava di sostituire con nuovi prodotti ciò che
ci veniva negato dalle nazioni più in-dustralizzate. Venne creata
così una chimica italiana, che in pochi anni raggiunse ri-sultati
eccellenti e che preparò una schiera di tecnici e di scienziati,
formando una scuola che dopo la guerra, per circa due decenni ancora,
poté produrre della buona chimica. In quel periodo un altro settore
di eccellenza fu l'elettronica, risultato indu-striale del grande entusiasmo
creato dalle scoperte di Marconi, un uomo di genio che il governo fascista
utilizzò purtroppo principalmente come richiamo pubblicitario,
sen-za creare un programma concertato, come avvenne con la chimica.
Il regime fasci-sta, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale,
lasciò alcune eredità impor-tanti, che il nuovo regime
democratico compartecipativo cercò accuratamente di far sparire
oppure di camuffare come proprie. Queste eredità sono:
-una tecnologia industriale dotata di originalità e ben fondata
nella cultura tecnica delle scuole e nel sistema produttivo industriale,
-un sistema industriale reso omogeneo e funzionale dall'IRI, il più riuscito e duraturo successo del regime fascista,
-l'assistenza sociale, che all'epoca fu di gran lunga la migliore del
mondo.
Usciti dalla guerra in condizioni di non totale distruzione e completata
in brevissimo tempo la ricostruzione, entrammo nella competizione commerciale
con grande slan-cio ma con governi che non vedevano nella ricerca null'altro
che la necessità di sal-vare le apparenze dell'immagine Italia.
E' probabile che il "lato oscuro" delle condizioni di resa
ci abbia costretti ad abbando-nare subito l'industria aeronautica, nella
quale avevamo raggiunto buoni risultati e che era sostenuta da una agguerrita
schiera di tecnici e scienziati, molti dei quali fu-rono costretti,
dopo la guerra, ad andare a lavorare negli Stati Uniti (si veda il gruppo
attorno a Ferri e Crocco).
7) La storia italiana recente vista attraverso il ruolo della "controcultura".
Come si è già detto nel capitolo precedente, il fatto
più importante, e mai chiaramen-te identificato da sociologi
e politici, è che in Italia si verificò la nascita di
una contro-cultura, quasi in tutto opposta alla cultura ufficiale, monopolizzata
dalle èlite di sini-stra. Questa controcultura, che ha affondato
le sue radici in ciò che restava delle tradizioni popolari e
contadine, si è diffusa trasversalmente alle fascie sociali stabilite
per reddito e professione. E questa controcultura ha realizzato un sistema
economi-co che è sfuggito alla logica di programmazione distruttiva,
che voleva l'Italia con-dannata dai vincitori ad una dipendenza totale
e perenne. Si tratta di ciò che econo-misti, giornalisti e politici
chiamano il "sommerso" e che si ritrova, in minor misura,
in tutte le economie del socialismo reale. In Italia questa parte dell'economia
ha dimen-sioni paragonabili a quelle dell'economia ufficiale. Quando
Craxi con una valutazione approssimata cercò di sommare il nostro
"sommerso" all'economia palese trovò che l'Italia scavalcava
l'Inghilterra!
Incapaci di credere nel bene pubblico gli italiani si ubriacarono di
idee comuniste, ma non votarono per una maggioranza comunista ed invece
lavorarono sodo per il bene privato e riuscirono a rovesciare tutte
le previsioni ed i progetti dei vincitori circa il fu-turo. Ma la distruzione
della nostra tecnologia, con il beneplacito dei governi a guida democristiana
e con la spinta a volte tacita ed a volte palese dei comunisti, costitui-sce
un vincolo invalicabile alla nostra crescita. Questa distruzione venne
attuata si-stematicamente dalla fine degli anni sessanta, quando i settori,
nei quali avevamo indipendenza tecnologica, andarono progressivamente
scomparendo. Visentini eli-minerà la ricerca Olivetti nel settore
calcolatori, mentre con la morte di Mattei l'ENI sarà progressivamente
fagocitato dalla logica spartitoria dei partiti politici, contenitori
di stupidità più che di corruzione. E' argomento delle
cronache recenti (1994) la ven-dita della Nuova Pignone, che ha tolto
all'ENI il principale punto di forza: le grandi trivelle petrolifere,
dalla cui disponibilità dipende l'autonomia nello svolgimento
delle campagne di ricerca di nuovi pozzi.
Il processo e la condanna di Ippolito misero al sicuro le grandi multinazionali
del nu-cleare dal rischio (abbastanza remoto) che l'Italia potesse raggiungere
nel settore dell'energia una sua autonomia. Si trattava anche di mettere
un freno alla straripante vitalità ed inventiva politica dell'uomo
Ippolito. E l'operazione, con il contributo della stampa nazionale e
della magistratura, riuscì egregiamente, senza la necessità di passare attraverso l'eliminazione fisica di Ippolito, come forse
invece si fece con Mat-tei.
Nella chimica, essendo molto consistente la nostra forza di conoscenze
scientifiche e tecnologiche, non si poterono impedire i successi del
gruppo di Natta e la vittoria del-le cause per il riconoscimento dei
suoi brevetti. Ma con i buoni uffici di Mediobanca, che poté
gestire l'ingente massa di denaro affluita alla Edison dalla nazionalizzazione
dell'industria elettrica, e grazie ai tanti errori tecnici ed economici
dei dirigenti della Montecatini, alla fine si arrivò al desiderato
risultato di azzerare la ricerca della Mon-tedison, togliendole quindi
ogni reale possibilità di svolgere una politica autonoma. Questo
risultato venne raggiunto anche grazie ad una particolare condizione
di fana-tica adorazione per il made in USA. La nostra classe dirigente,
la nostra superstite tecnocrazia venne sconfitta, prima che da "congiure"
politiche ed economiche, da un erroneo sentimento di impotenza, dalla
frustrazione nata dalla convinzione di non saper competere con la trionfante
forza delle nuova tecnologia americana, rivelatasi negli anni seguenti
essere in parte frutto di un'abile montatura pubblicitaria. Queste operazioni
sono state facilitate dalla scarsa (se non nulla) cultura industriale
di molti nuovi personaggi emergenti alla guida dei nostri complessi
industriali privati e pubbli-ci. Uomini come Gardini, che certamente
suscitano passioni ed anche simpatie attor-no alle loro vicende, per
quanto attiene alle capacità di dirigere una grande industria
chimica debbono essere classificati come personaggi incompetenti e folcloristici,
dannosi a sé ed alla comunità.
Fra i politici è difficile dire se sia stata maggiore l'incompetenza
oppure la deliberata volontà di nuocere. La vicenda incresciosa
della TV a colori, che venne ritardata in Italia a causa della puntigliosa
ostilità di Ugo La Malfa, dimostra come sia possibile e facile,
con argomentazioni populiste e demagogiche, ingannare la pubblica opinione
e finire col privare il paese di un intero settore di produzione e di
posti di lavoro.
Può sembrare una contraddizione ed una smentita delle fosche
previsioni sin qui formulate, l'aver l'Italia iniziato la sua forte
espansione economica (con la produzione su larga scala di beni di consumo
di massa) proprio in coincidenza non fortuita con l'inizio dell'operazione
di distruzione della nostra indipendenza tecnologica. Invece questa
coincidenza rivela il legame che esiste tra l'essere diventata l'Italia
un paese sottomesso docilmente al grande capitale, e l'aver goduto di
una apparente espan-sione economica. Ciò che avviene, durante
un tempo molto più breve, nei Lander di quella che fu la Germania
Est, dimostra che questa colonizzazione si realizza in con-comitanza
con la crescita di quasi tutti gli indicatori economici.
Gli Stati diventano colonie del grande capitale tecnologico.
Ma la dipendenza ha una conseguenza spiacevole: impedisce di fatto ai
governi na-zionali di governare. Essa certamente rende poi impossibile
svincolarsi dalle reces-sioni, quando il gioco dei grandi flussi di
capitali le impongono. In queste condizioni sarebbe impensabile un salvataggio
da una grande crisi, come ad esempio quella del '29, quando solo l'Italia
e la Russia sfuggirono alla recessione mondiale. Forse a nessuno oggi
interessa l'indipendenza e l'orgoglio delle proprie tradizioni. Nè
interes-sa tramandare qualche cosa ai figli, visto che i pochi figli
non appartengono ai genito-ri, ma sembrano invece appartenere alla società,
alle ideologie ed alle mode, com-prese quelle che si fondano sulle droghe.
Questo quadro non desta alcun interesse negli italiani, che vivono immersi
in una litigiosità endemica, sterile, e rivolta a con-quistare
un potere politico sempre più effimero ed inconsistente.
Così si chiude un'epoca. Forse è iniziata la fine dello
Stato-nazione, la fine della pa-tria come sacralità culturale
e territoriale, mentre inizia l'era dei governi e degli Stati a sovranità limitata. La fine dello Stato juguslavo, i fermenti che percorrono gli
stati i-slamici, l'autodistruzione dell'impero sovietico, il crearsi
di una nuova area di influen-za economica, commerciale e tecnologica
attorno alla Germania riunificata, sono tut-te indicazioni di una mutazione
della storia, che, a dispetto di una ripetuta e scontata affermazione
lapidaria, appare invece ben decisa a tornare indietro.
La domanda di rito: dove stiamo andando?
Dalla storia della politica tecnologica siamo così arrivati al
futuro della storia, nel qua-le le nuove tecnologie certamente giocheranno
un ruolo non secondario.
Alla fine di questo ventesimo secolo quel luogo di creazione di cultura
e d'arte, che è stato l'Italia, si avvia a diventare un paese
privo di cultura, di arte e per di più felice-mente limitato
nella sua sovranità politica: una sperduta provincia dell'impero
mon-diale. Guardando indietro il secolo che si chiude e che porta con
sé la fine del se-condo millennio, quei millenni contati a partire
da una nascita avvenuta in una sper-duta provincia di un impero del
quale l'Italia era il centro, si scopre che si è realizzata un'immensa
mutazione della storia del mondo.
Da un'Europa centro del mondo siamo oggi ad un mondo senza centro, con
un pote-re sovranazionale che vaga nelle reti informatiche, nello spazio
esterno e nelle visce-re della Terra, dove dormono i grandi arsenali
per la morte totale. In questo rivolgi-mento che si potrebbe definire
cosmico, scrivendo in italiano, una lingua che forse avrà corso
per pochi anni ancora, cerchiamo di fare una sintesi di ciò che
ci è acca-duto e che abbiamo cercato di capire.
Si può dire che all'incirca in tutto il secolo solo durante poco
più di un decennio ab-biamo avuto ancora la possibilità
di stare sulla ribalta della storia: dal 1923-24 sino alla fine della
campagna d'Africa, nel 1935. In quegli anni è stata costruita
l'Italia e gli italiani hanno trovato una patria nella quale si sono
riconosciuti.
Poi è subito iniziato il declino, reso ancor più rapido
dalla partecipazione alla secon-da guerra mondiale. Sino al 1975 la
generazione che si era formata sotto il fascismo e che era rimasta fuori
dalle sue ultime degenerazioni, ha potuto dare ancora il me-glio di
sé con uomini come Mattei, Giustiniani, Olivetti, Saraceno, Valletta,
e gli scienziati come Fauser e Natta, sino a Carassa. Tra i politici
si debbono a malincuore annoverare gli Andreotti ed i Craxi, a loro
modo geniali, preceduti dalle figure di De Gasperi, di Togliatti e di
Moro. Ma nessuno di costoro può essere considerato un ve-ro statista.
Lo stuolo rumoroso e pasticcione di aspiranti politici, che è
venuto dopo, si incarica di rendere irreversibile la dissoluzione dell'Italia,
conservata nella sua for-ma burocratica solo per rendere più
agevoli le speculazioni in corso e quelle prossi-me venture. La "nuova" nomenclatura politica non solo non domina i mutamenti in corso ma neppure
ne percepisce l'esistenza. Un fiume di diseredati del quarto mondo approda
ogni giorno sulle nostre coste. Se ne ha notizia solo durante le mareggiate,
quando Il mare s'incarica di svelare il pietoso segreto trascinando
a riva naufraghi ed annegati.
Chiudiamo gli occhi davanti al gigante Germania credendo che le strutture
della nuo-va Europa lo ingabbieranno e lo faranno lavorare per noi.
La millenaria cultura politi-ca romana è certa della riuscita
dell'operazione. Quindi per non guastarci queste speranze non vogliamo
riconoscere che il trattamento riservato alla Germania Est, dopo l'annessione,
è stato il banco di prova per studiare le forme adatte per "norma-lizzare" tutta l'Europa in un futuro prossimo venturo. E' in corso una sorta
di Guerni-ca culturale-economica e politica che prelude all'applicazione
unilaterale del trattato di Maastricht, la completa trasformazione dei
paesi europei in colonia americana tramite il governatorato germanico.
La lunga marcia degli Stati Uniti per raggiungere il potere sull'intero
pianeta, iniziata sotto la guida di Wilson con il modesto intervento
nella prima guerra mondiale, sembra essere
arrivata al traguardo oggi con la neutralizzazione della Russia, il
patto con la Germa-nia in Occidente e gli stretti legami con il Giappone
in Oriente. L'esame della nostra politica tecnologica ha mostrato le
tappe della nostra perdita di esistenza come Stato e come nazione. Ma
nel nuovo ordine mondiale abbiamo visto anche nascere, in al-cuni paesi,
tra i quali in primo luogo l'Italia, una nuova forma di aggregazione
sociale fondata sull'indifferenza verso la cultura dominante al punto
da erigere una sorta di controcultura, l'unica forza vitale in grado
di traghettarci nel futuro ignoto che ci attende e ci sovrasta.
(1) Daniele Archibugi, Rinaldo Evangelista, Mario Pianta "Il dilemma
tecnologico", Sapere, maggio 1993.
(2) Luciano Nigro "Ma la ricerca fa davvero bene all'industria?",
la Repubblica, 12 ot-tobre 1994.
(3) Anthony Daniels, "Who says they need a clean pair of hands
at the Helm?", Daily Telegraph, 30 dicembre 1994. <Berlusconi
has imploded. Italy slides further into poli-tical chaos. Yesterday
President Scalfaro was searching for someone, anyone, who might be described
as a prime minister with clean hands. Among the very few possi-ble candidates
... is .. Antonio Di Pietro, who fought long and hard first to expose
and then to punish corruption in high places. It is generally agreed
that corruption, per-meating all levels of Italian society, has brought
the state to the point of disentagra-tion. And yet I wonder whether
all this is too pat. One could argue that the Italians have prospered
precisely because they suffer from institutionalised corruption. When
I first went in Italy as a child, in the year of the Rome Olympics,
Italian levels of con-sumption were in some respects similar to those
of Cuba. .....The Italian economy was much more diversified than Cuba's,
but Italy was still recognisably a poor coun-try. ...I think that a
Sicilian visitor to England is now more likely to be shocked by En-glish
poverty than vice versa. ... "Il Sorpasso" has been enshrined
in official GNP figures, though they have been hotly disputed in Britain.
.... what in any case is un-deniable is the starting reversal in relative
economic fortunes of the two countries. In 1950 ..., Britain, with a
very similar population, had seven times as many private cars as Italy;
by 1980, Italy had three million more, and by 1987 nearly seven million
...more. Those patriots who console themselves for Britain's relative
economic decli-ne vis-a-vis Italy with tales of Italy's terrible public
services, especially its hospitals, may be surprised to learn that while
Italy's infant mortality rate ... was three times higher than Britain's
in 1960, it is now the same as, or possibly a little better than, Bri-tain's.
What has brought about this overturning, in a comparatively few years,
of our economic superiority which had lasted for three centuries? Even
the most ardent admires of Italy would be reluctant to argue that the
answer is good government. With one former prime minister, Bettino Craxi,
sensibly having taken refuge in Tunis "for the sake of his health",
and another, Giulio Andreotti, accused of membership of the mafia, with
the party which ruled Italy for 40 years annihilated by a most unsa-voury
corruption scandal, it seems at first sight that Italian economic success
must have been achieved in spite of, rather than because of, Italy's
government.
Alas for neo-liberal, one cannot argue that the Italian state's participation
in economy has been small. If anything, its weight in the Italian economy
has been greater than that of the British state in the British economy.
There is no simple message here. But the role of the Italian state has
been very different from that of the British state, at le-ast in the
view of the people. The Italian state posses little legitimacy. ...
The centrali-sing pretensions of Rome are therefore resisted, its decrees
ignored as far as possi-ble.
Those who control the state use it as a means of patronage merely to
remain in power, while those who are subject to it see it as (at best)
an object of plunder. From this gross corruption inevitably follows.
This is of incalculable advantage to I-taly. It keeps alive the entrepreneurial
spirit, even in the heart of the bureaucracy. It disabuses everyone
of the idea that the state might provide the answer to social, personal
and other problems, since it self-evidently will not. It thus preserves
the family as the focus of loyalty and source of aid. It induces a healthy
contempt for ab-surd regulations, which a large bureaucracy inevitably
produces, and evasion of which stimulates initiative. The vibrancy of
Italian economic life, which depends upon the spirit of the people,
could not survive honest (but meddlesome - impiccione - ) government.
There are disavantages to corrupt government. It makes everyday life
difficult, and the clientage indulged in both by Christian Democrats
and the Socialists has resulted in an enormous burden of public debt.
However, one can exaggerate the rottenness of the Italian state: its
money, after all, is still money, an impressive in-frastructure has
been built, and public order maintained.
In Britain, by contrast, we have suffered terribly from honest government.
Such cor-ruption scandals as we can manage would disgrace a small Italian
municipality. This has resulted in everyone taking government too seriously.
...Public money can still be invested well or badly, and on the whole
we have invested badly; instead of milk into babies, we have put paid
to initiative. But intangible factors, such as the spirit of the people,
are at least as important as economic policy: and those who blamed our
e-conomic woes on our failure to join the ERM were soon blanking them
on our pre-sence within it. ...it would be wrong not to draw a lesson
from a country which in so-me ways has been very much more successful
than our own. That lesson is that the purpose of government should be
to guarantee opportunity, not the satisfaction of desires.
In Italy, this has been done very expensively by making politics utterly
contemptible (and with the risk of a dangerous backlash), in Britain,
we should achieve it by reali-sing that politicians, despite their comparative
honesty and whatever their policies, cannot save us.>
(4) A. Abbott, "Germany stumbles on enacting plan to integrate
eastern scientists", Nature, 362, 775 (1993). A. Abbott, "Industrial
research in crisis in east Germany", "Differing views on technology
transfer", Nature, 367, 306 (1994); A. Abbott, "Ger-man parties
compete for scientists' vote", Nature, 371, 466 (1994); A. Abbott,
"Berlin university protests at bid to cut science faculties",
Nature, 375, 346 (1995); A. Ab-bott, "Germany seeks to re-balance
funding for research centres", Nature, 375, 170 (1995); A. Abbott,
"Germany refuses to prolong university support scheme", Nature,
375, 97 (1995).
(5) K. Seitz, "Il Dibattito sulla Competitivita' dell'Industria
Tedesca non Colpisce nel Segno", Il Sole 24 Ore, 25 maggio 1993.
(6) B. Nussbaum, "The World after Oil" 1983.
(7) P. Pasolini, Corriere della Sera, 1-2-1975.
(8) L. Thurow "Head to Head", Warner Books (1993).
(9) E. Lingeman, "West goes East as East moves forward", Physics
World, p.59, no-vembre 1992.
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